1335, Portu de Sila e Portu Maiore
(di Sergio Sailis)
(di Sergio Sailis)
E poi capita che il Tola, l’illustre
studioso ottocentesco, cui ovviamente hanno fatto riferimento generazioni di
storici isolani, nel trascrivere un documento – probabilmente utilizzando una
copia scorretta - riporti alcuni toponimi trexentesi in un modo alquanto singolare:
si tratta delle ville di “Portu de Sila” (Guasila), “Portu Maiore”
(Guamaggiore), “Gelega” (Selegas) e “Gegaria” (Segariu). Volendo di proposito tralasciare
i commenti sulle lettere iniziali degli ultimi due villaggi, risulta alquanto più
problematica la presenza della parola “Portu” nei primi due toponimi in quanto sarebbe
l’unica attestazione nota al posto del tradizionale “Goy” e varianti.
Spinto dalla curiosità (essendo i
villaggi al centro della Sardegna e lontano da corsi d’acqua navigabili) uno si
mette quindi a studiare la possibile derivazione di questa insolita variante risalendo
anche agli usi che del vocabolo “portus” si faceva nell’antica Roma e arrivando
persino ad una che potrebbe sembrare una soluzione plausibile. E poi cosa
scopre?
Scopre che finalmente rintraccia
il documento originale riportato dallo studioso e che nello stesso la parola “Portu”
semplicemente non esiste mentre invece è riportato il più classico, ben noto e solito
lemma “Goy”.
Non che il tempo passato a
studiare le possibili implicazioni del termine sia stato tempo sprecato in
quanto non si finisce mai di conoscere ma, bonariamente e ironicamente mi viene
da dire alla maniera sardesca: “Oh Tola, ma bai a ...................”.
Lasciando ora gli argomenti semiseri
e tornando al documento in esame, o meglio la serie di documenti, questi sono l’esito
di alcune proteste che Bando Bonconti e Puccio della Vacca (rispettivamente
vicario e camerario del Comune pisano per le Curatorie di Gippi e Trexenta)
rivolgono nel maggio del 1335 al Governatore generale del Regno di Sardegna e
Corsica, Ramon de Cardona, e le risposte inviate da quest’ultimo.
A seguito delle rivolte dei Doria
nel nord Sardegna infatti il Governatore aveva imposto una serie di tributi (per
la compartecipazione alle spese di guerra) anche alla Curatoria di Gippi e ai
quattro villaggi prima citati appartenenti alla Curatoria di Trexenta,
curatorie che il Comune pisano amministrava in feudo a seguito della pace del
1326.
Una delle clausole della pace e
della conseguente infeudazione prevedeva espressamente che il Comune fosse
esentato da qualsiasi tipo di tributo per cui le richieste aragonesi erano
prive di fondamento giuridico ed un’evidente prevaricazione sui diritti di Pisa.
Da qui le rimostranze degli ufficiali pisani e una serie di risposte e contro repliche
con il Governatore ma alla fine ovviamente prevale sempre chi ha maggior potere
contrattuale: anche per le due curatorie ancora in mano a Pisa si dovranno
pagare i contributi richiesti perché le casse reali sono desolatamente vuote. Con buona pace del Diritto!
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