lunedì 19 dicembre 2016

1371, tentativi di pace tra Aragona e Arborea.

1371, tentativi di pace tra Aragona e Arborea.
di Sergio Sailis

La lunga guerra combattuta per la supremazia in Sardegna tra Aragona e Arborea alternava periodi di stanca a periodi di effettivi combattimenti. Nel 1371 papa Gregorio XI (al secolo Pierre Roger de Beaufort nell'immagine) eletto da appena un anno cerca in diverse circostanze di farsi intermediario tra i due contendenti. A questo fine sollecita in più di un’occasione l’invio di procuratori per evitare la guerra che stava incombendo sull’isola.
img. di Gregorio XI


L’atteggiamento pontificio era però come al solito contradditorio; appena qualche settimana prima, il 25 novembre, la Santa Sede aveva infatti concesso, per l’ennesima volta, a Pietro IV le decime papali da riscuotere in Sardegna per un altro triennio al fine di consentire al monarca aragonese di avere le risorse finanziarie per la guerra nell’isola mentre il 18 dicembre dava disposizioni affinché in Provenza venisse appoggiata la raccolta di truppe destinate a sedare la ribellione sarda. Poiché nel frattempo si era aperto anche il fronte siculo, ed era intenzione degli aragonesi dirottare in Sicilia l’esercito già raccolto in Provenza, nel febbraio successivo scriveva al sovrano aragonese per spingerlo a concentrarsi prioritariamente sul problema sardo.
Il papa non disdegnava però di ricorrere a Mariano quando aveva bisogno di particolari favori come l’invio di frumento in determinate zone a lui care o il recupero di navi o mercanzie predate nei mari dell’isola.
Di seguito la lettera inviata 645 anni fa dal Pontefice a Mariano IV il 13 dicembre del 1371 (che faceva seguito a analoghe richieste del febbraio e aprile dello stesso anno e che continuerà a fare anche negli anni successivi) affinché venissero nominati i procuratori da inviare alla sede pontificia. (S.S.)
“Dilecto filio nobili viro Mariano iudici Arboree, salutem et cetera. Litteras nobilitatis tue et ea que pro ipsius parte venerabilis frater noster episcopus Bosanensis nobis exposuit, benigne et diligenter intelleximus et ad illa breviter respondemus quod nobis videtur utile fore et expediens quod etiam non obstante eo quod in tuis litteris asserebas quod carissimus in Christo filius noster Petrus rex Aragonum illustris ad guerram contra te et insulam Sardinie se parabat quod tu pro meliori statu insule prefate ac tui et bonum dicte insule quiete et commodis et pro pace ac concordia inter prefatum regem et nobilitatem tuam auctore Domino reformanda, tuos procuratores et nuncios de intentione tua plenarie informatos prudentes et providos pacis et concordie zelatores cum sufficienti mandato ad tractandum et pacem et concordiam huiusmodi nuendum atque formandum ad romanam curiam quanto citius poteris studeas destinare et de hoc nos qui inter cunctos Christi fideles sed presertim inter reges et nobiles a quibus maxime populorum quies ac tranquillitas et gentium commoda proveniunt vigere pacem et concordiam validis desideriis affectantes, nobilitatem prefatam affectuose requirimus et rogamus tu igitur predicta et quanta mala et pericula tam animarum quam corporum ex guerris et discordiis sequi possunt et quod decens est tuoque honori convenit quod deseras dicto regi eosdem nuncios cum sufficienti mandato ad presentiam nostram mittere non postponas. Datum ut supra.”
Per luogo e data ci si riferisce ad una lettera precedente “Datum Avinione idibus decembris, anno primo.”
(trascrizione D’Arienzo)

giovedì 15 dicembre 2016

La quadripartizione della Sardegna giudicale

La quadripartizione della Sardegna giudicale

di Sergio Sailis

La prima testimonianza scritta relativa alla suddivisione della Sardegna in quattro Giudicati è quasi sicuramente una lettera scritta a Capua il 14 ottobre del 1073[1].


Con questa missiva Papa Gregorio VII si rivolge a Mariano (Giudice di Torres), Orzocco (Giudice d’Arborea), Orzocco (Giudice di Cagliari) e Costantino (Giudice di Gallura) ammonendoli affinché si sottomettano agli insegnamenti della Chiesa cattolica.





img. di Gregorio VII
“GREGORIUS episcopus servus servorum Dei Mariano Turrensi, Orzocco Arborensi, item Orzocco Caralitano, Constantino Callurensi, iudicibus Sardinie, salutem et apostolicam benedictionem.

Vobis et omnibus, qui Christum venerantur, cognitum est, quod Romana ecclesia universalis mater sit omnium christianorurn. Que licet ex consideratione officii sui omnium gentium saluti debeat invigilare, specialem tamen et quodammodo privatam vobis sollicitudinem oportet eam impendere. Verum quia neglegentia antecessorum nostrorum caritas illa friguit, que antiquis temporibus inter Romanam ecclesiam et gentem vestram fuit, in tantum a nobis plus quam gentes, que sunt in fine mundi, vos extraneos fecistis, ut Christiana religio inter vos ad maximum detrimentum devenit. Unde multum vobis necessarium est, ut de salute animarum vestrarum studiosius amodo cogitetis et matrem vestram Romanam ecclesiam sicut legitimi filii recognoscatis et eam devotionem, quam antiqui parentes vestri sibi impenderunt, vos quoque impendatis. Nostri autem desiderii est non solum de liberatione animarum vestrarum curam velle habere, sed etiam de salvatione patrie vestre sollicitius invigilare. Unde si verba nostra, sicut decet, devoti receperitis, gloriam et honorem in presenti et in futura vita obtinebitis. Quodsi aliter, quod non speramus, feceritis et ad sonum exhortationis nostre aurem debite obedientie non inclinaveritis, non nostre incurie sed veste poteritis culpe imputare, si quid periculi patrie vestre contigerit. Cetera, que de salute et honore vestro tractamus, magna ex parte confratri nostro Constantino Turrensi archiepiscopo vobis referenda commisimus. At cum legatus noster, quem Deo annuente in proximo mittere disponimus, ad vos venerit, voluntatem nostram pleniter vobis significabit et, quod glorie et honori vestro condecet, apertius enarrabit. Data Capue II. ldus Octobris, Indictione XII.”




[1] Erich CASPAR, Das register Gregors VII, Epistolae Selectae in usum scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis, tomus II, fasciculus I, Gregorii VII registrum lib. I-IV, Berlino 1920, pag. 46-47. Cfr. Olivetta SCHENA-Sergio TOGNETTI, La Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc. XI-XV), Storia medioevale, Strumenti e sussidi, n. 5, Milano 2011, pag. 31.

martedì 6 dicembre 2016

Guamaggiore

 
GUAMAGGIORE, altrimenti GOY-MAGGIORE, villaggio della Sardegna nella provincia di Cagliari e nel mandamento di Guasila sotto la prefettura di Cagliari.
Comprendesi nella Trecenta che fu parte del giudicato pluminese o cagliaritano.
La sua situazione geografica è nella latitudine 39° 34', e nella longitudine occidentale da Cagliari 0° 2' 30".
Infelicissima è la posizione di questo paese, giacendo esso in fondo del bacino della Trecenta in luogo pantanoso e umidissimo nelle stagioni piovose, frequentemente ingombro di nebbie, principalmente al primo mattino, e non ventilato; mentre poi nell’estate si deve soffrire un calore soffocante nell’esposizione in cui è al meriggio e col riverbero che dee patire dalla collina che sorge alle sue spalle. In questo luogo di somma insalubrità si stabilivano le abitazioni dopo l’ultima pestilenza che si patì nell’isola correndo gli anni 1651-52-53-54. I pochi superstiti riconoscenti verso il martire san Sebastiano che avevano invocato nell’orrore della mortalità edificavano secondo il voto una chiesa al suo culto, e sì per amore al santo, sì per disaffezione a un luogo dove avean veduto spegnersi le vite de’ loro più cari, lasciate le antiche abitazioni che erano in una piccola eminenza, discesero a stabilirsi in torno alla chiesa del loro protettore.
 
Popolazione. Nell’anno 1839 erano in Guamaggiore famiglie 210 ed anime 896, delle quali 479 nel sesso maschile e 417 nel femminile. La media ottenuta dal decennio dà nascite annuali 33, morti 24, matrimonii 7. L’ordinario corso della vita è a’ 60 anni. Le malattie più frequenti sono le infiammazioni. Si è osservato che nelle influenze epidemiche sono più pochi in proporzione quelli che succombono in questo paese. Il cimitero è nelle due chiese rurali di s. Ma-ria-maggiore e di s. Pietro apostolo nell’anzi indicata eminenza.
 
Professioni. Delle famiglie che compongono questo comune 160 attendono all’agricoltura, 15 alla pastorizia, 24 a varii mestieri. Quindi sono a notarsi 4 famiglie nobili e alcune altre, i cui capi hanno qualche ufficio o sono semplici proprietarii. Le famiglie possidenti sono 171. Le donne lavorano ne’ loro telai tele e panni grossolani, ma poi non producono nè pure quanto vuolsi dal bisogno della famiglia.
Alla scuola primaria concorrono circa 20 fanciulli. Il frutto che fin qua si ottenne, può riputarsi nullo. Al più 30 persone in tutto il paese sapran leggere e scrivere.
 
Territorio. La superficie appartenente a questo comune può computarsi di starelli 3600. La forza produttiva del terreno è conosciuta universalmente, così come nelle altre parti del dipartimento, che è la regione eminentemente granifera.
La maggior parte di questo territorio sono colline e rialti coltivabili e coltivati. L’eminenza più considerevole è quella che dicono Genna de Sutzulias, intorno alla quale è un orizzonte vastissimo stendendosi la vista dove 30 e dove più di 50 miglia.
Acque. Sono alcune sorgenti d’acque dolci sì, ma poco grate al gusto; tali sono quella di Bacu-coloru verso l’ostro-libeccio a un quarto d’ora, dalla quale beve il popolo; Mistirio verso il scirocco a pochi minuti, le cui acque dopo aver irrigato alcuni orti scorrono verso il meriggio, e subito si mescolano a quelle di Baraci proseguendo nella stessa direzione sino alla regione detta Pauli de bois nel territorio di Ortacesus. Dalla Corti-de-forru prende origine un ruscello che cresciuto con le acque della fonte appellata della foglia (sa mitza dessa folla) scorre nel territorio e tra le vigne di Guasìla, dove prende il nome di Riu-Arai. Nelle case si hanno de’ pozzi per li bisogni domestici e per abbeverare il bestiame manso.
Per l’ordinario non sono acque stagnanti nel territorio: ma se accade che non si puliscano e sgombrino i canali del luogo che dicono Pauli-manna al ponente del paese in distanza di circa 10 minuti, allora, se le prime pioggie autunnali siano dirotte, formasi un laghetto sopra una superficie di circa 15 starelli, e non si asciuga se non ne’ grandi calori. In esso vedonsi nuotare le anitre per molti mesi.
 
Selvaggiume. Trovansi in questo territorio conigli e lepri in grandissimo numero, e molte volpi che danno gran molestia a’ pastori massime nel tempo che il bestiame figlia. Vedonsi pure avoltoi, corvi, cornacchie, passeri, cardellini, quaglie, meropi, upupe, merli, tortorelle e tante altre specie che saria lungo a dire. Vuol-si che siavi anche il fagiano.
 
Agricoltura. Vegetano prosperamente in ogni parte i grani, l’orzo, le fave, i ceci, le cicerchie, le lenticchie, i piselli, come gli ulivi, i peri, i susini, i mandorli, i meligranati e le viti; in alcuni siti bassi i melloni, le zucche, la meliga, i fagiuoli; e verrebbero pur felicemente il cotone, il sorgo, ed altre simili piante che amano i bassi fondi.
L’ordinaria quantità de’ cereali che si semina, consiste in 600 starelli di grano, che comunemente rende il 15; in 200 d’orzo, che dà fino il 30; in altrettanto di fave, che moltiplicano quanto il fromento; in 12 di ceci e cicerchie, che producono anche il 10; in tre quarre di lenticchie che danno fino il 25, ecc. Il lino che si semina può ammontare a 10 starelli e se ne raccolgono circa 4000 manipoli che maciullati posson pesare 4 o 5 oncie per ciascuno.
Dalle vigne ottiensi mosto abbondante, e si fa vino bianco e nero. Le uve bianche sono il moscatello, la malvagia, il semidano, l’erbaposada, l’uva d’un grano, l’occhio di rana, il galoppo, il nuragus, l’apasorgia bianca: le nere sono il mustello o bovàli, la zaccarredda, la monica, il girò, la merdulina, il cannonao, la apasorgia nera, la nieddera, il rosanera.
Ne’ fruttiferi si distinguono ulivi, peri, fichi, susini, pomi, mandorli, e molte altre specie e varietà. È però vero che il numero n’è assai ristretto.
In alcuni chiusi si coltivano le piante ortensi.
Le terre chiuse per seminarvi e tenervi a pastura il bestiame domito possono avere la superficie complessiva di 110 starelli. La cinta è formata a pietre senza cemento o è da una siepe di fichi d’india.
Nel territorio non vedesi nè bosco, nè selva; occorrono però frequentissimi gli olivastri e i perastri.
 
Bestiame. Nell’anno 1839 si numeravano vacche 60, buoi per l’agricoltura 120, cavalli 40, giumenti 80, pecore 3500, porci 200. Il bestiame domito si nutrisce nelle case de’ proprietarii con fave, orzo e paglia nell’autunno e inverno, con l’erba nella primavera, con le stoppie nell’estate: il bestiame rude nelle terre aperte. I soli porci sono menati via nell’inverno per esser ingrassati ne’ ghiandiferi di altri dipartimenti.
 
Commercio. Da’ prodotti agrarii e da altri minori articoli possono questi popolani lucrare all’anno ll. n. 35 mila. Per s. Maria Maddalena si celebra una piccola fiera.
La distanza di Guamaggiore da Guasila e da Selegas è di circa un miglio.
 
Religione. Comprendesi questo popolo nella giurisdizione dell’arcivescovo di Cagliari, siccome vescovo doliese. Il paroco che li governa ha il titolo di rettore, ed è assistito nella cura delle anime da altri due sacerdoti. La chiesa parrocchiale situata quasi nel centro della popolazione è dedicata al martire s. Sebastiano, in cui onore si celebrano ogni anno due feste, una addì 20 gennajo e l’altra addì 5 maggio in memoria della dedicazione. Ad ambe è gran concorso anche da’ vicini paesi, e molti vanno veramente per motivo di religione.
Al libeccio del paese e in piccola distanza dal medesimo sopra due distinti rialti sono tre chiese, una dedicata a santa Maria maggiore, l’altra a s. Pietro, la terza a s. Maria Maddalena. La prima fu chiesa parrocchiale quando la popolazione abitava intorno. È di costruzione antica, ed è conosciuta l’epoca da una lapida in barbaro latino che vedesi nella facciata, nella quale notasi che cominciossi a edificarla addì 20 agosto dell’anno MCCXIIII. Questa e l’altra di s. Pietro rinchiuse entro un muro, servono per cemiterio.
Per la festa di s. Maria Maddalena, che cominciò a celebrarsi da circa 83 anni, quanto è il tempo scorso dalla sua edificazione, concorrono molti da’ vicini paesi chi per divozione, chi per ricreazione, e altri per ismerciarvi frutta, vini, confetti, panni e stoffe.
 
Antichità. Norachi. Sono conosciuti co’ nomi seguenti, norace de Baccas, Friarosu, Sa Corti deis Bacus, Marigianu, Barru, Su bruncu dessu sensu, Laus de leoni, Titirìu, Pitzu Ecis, s. Maria Maddalena, Perdosu, Su bruncu de Giuanni Zuddas, Ungrera, Nuragi de Mindas, Sa corti dessu Seci, Montacuzzu, Ruina-enna, Atza-casu. Il più considerevole è il detto Montacuzzu, gli altri sono in gran parte distrutti e di alcuni non restano che le sole fondamenta. I norachi di Pitzu Ecis, e Giuanni Zuddas furon distrutti per usare i materiali a una chiudenda, e quello di s. Maria Maddalena per fabbricar l’attuale chiesa. È da notarsi che presso al norace Baccas si scopersero intorno al 1820 alcuni pezzi informi di bronzo con varii istromenti a lavorare su’ metalli.
È poi da vedersi presso a questo stesso norace un fabbrico antico di grosse pietre in forma circolare, che volgarmente si appella Su fràigu deis morus (la fabbrica dei mori).
In varii luoghi di questo territorio gli agricoltori scoprirono sepolcri, ne’ quali trovarono ossa, lucerne, scodelline, vasi lacrimatori e antiche monete. Le misure de’ sepolcri e delle ossa sono al solito esagerate, e si suol far credere che fossero tombe di giganti.
 
Popolazioni antiche. Alcuni indizii sembrano ricordare l’esistenza di alcune popolazioni, delle quali ignorasi il nome; ed essi si trovano presso norace Mindas, in su Corti dessu Seci, in Barru, in Perdosu.




[1] Vittorio ANGIUS, in Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna (a cura di Goffredo CASALIS), vol. VIII, Torino 1841, pagg. 279-283.

giovedì 1 dicembre 2016

Barrali

Immagini della Trexenta ottocentesca: Barrali[1]
 
BARRALI, villaggio della Sardegna nella provincia di Cagliari, distretto di Ussana, e tappa (uffizio d’insinuazione) di Cagliari. Comprendesi nell’antico dipartimento di Trejenta del giudicato di Cagliari. L’antico nome di questo paese era Villarìos.
Giace alle falde di Montiùda, che divide la Trejenta dal Partiolla. Componesi di 75 case distribuite irregolarmente. Le strade sono senza selciato, e non si cura di tenerle monde.
Questa parrocchia è nella giurisdizione dell’arcivescovo di Cagliari come vescovo di Dolia. La chiesa è sotto l’invocazione di s. Lucia v. e m., e fu rifabbricata nel 1832. Il preposto alla cura delle anime era per l’addietro qualificato rettore, ma per la tenuità dei frutti decimali già da 30 anni in qua vi si è instituito un pro-vicario. Per la festa principale della titolare che si è fissata nella prima domenica di luglio, si celebra una piccola fiera, l’altra festa occorre addì 13 dicembre.
Nei primi anni del corrente secolo la popolazione sommava appena a 200 anime. Nell’anno 1833 si annoverarono famiglie 75 e anime 246. Il numero ordinario dei nati è sotto i 10, e quanti nascono, tanti poco meno muojono.
Vestono nelle stesse maniere degli altri campidanesi, se non che se ne distinguono per la minor pulitezza. Amano molto i balli, e volentieri passano le lunghe ore in ozio, bruciando tabacco.
La temperatura è calda, e l’umidità è assai sensibile nelle notti: la nebbia domina in ogni stagione, nè prima si dirada, che sia l’atmosfera ben riscaldata dal sole: poco danno, o nulla credono patirne i nativi, contro ciò che con più verità si può dedurre dalla loro poco sana costituzione, dal colorito squallido e gialleggiante, e dalla brevità della vita.
Le tempeste di grandine e di fulmini sono rare. Il paese è situato su d’un piano umido in un seno alla falda del detto monte, dove non altro vento passa che il ponente. Da ciò deducasi qual aria vi si respiri. Alcuni pioppi, che in diversi siti dell’abitato frondeggiano, ne rendono la prospettiva un po’ amena, e nella primavera vi si riunisce gran numero di usignoli, che riempiono l’aria di gratissimi armonici concenti.
Il Barralese nei tratti coltivabili sì del piano, come del monte non potrebbe capire più di 1000 starelli di semenza (ari 3986), mentre la superficie può calcolarsi a 15 m. q. Le terre alla parte di ponente sono delle altre più idonee ai semi, e vi fruttifica bene il frumento, l’orzo, le fave, e le cicerchie. Lungo il fiume potrebbe venir prosperamente anche la meliga, e naturarvisi il cotone, come persuade l’esperienza del 1821, fatta come in altri territori d’ordine vice-regio, e poi non più ripetuta.
Al monte agrario di questo paese era stato assegnato il fondo granatico di star. 400 (litr. 19,680), ed il nummario di lire sarde 435 (l. n. 835.20). Nello stato del 1833, il primo comparve cresciuto a star. 1000, il secondo ridotto a lire sarde 33.10.
L’ordinaria somma delle semenze va a star. 570, così spartiti, che diansi ai solchi 250 di grano, 200 d’orzo, 100 di fave, 20 di cicerchie. La raccolta suol computarsi da 5 in 6 mila starelli. Gli orti producono cocomeri, zucche, poponi, fagiuoli, cipolle. Di lino se ne coltiva tanto, che sia sufficiente ai propri bisogni. I telai non son più di 20. Poche sono le vigne, poche le varietà delle uve, il vino di mediocre bontà, che non sempre basta alla consumazione. Le piante fruttifere sommeranno a circa 800; le specie sono peri, prugni, mandorli, ed alcuni gelsi e cotogni. I chiusi sono 35, e comprendono una superficie di star. 150 (ari 5,979), nei quali alternasi la seminagione del grano e delle fave.
Fuor dei pioppi, nessun’altra specie di alberi vedesi vegetare in queste terre, dove sarebbero utilissimi e per bonificar l’aria, e per somministrar delle legna e per le opere e pei focolari.
Tutti i poderi, come nella massima parte dei Campidani si osserva, sono assiepati con fichi d’India, che vi vegetano con molto lusso. Sono fruttuosissimi, e quindi per alcuni mesi la misera gente trae la sua sussistenza, il restante serve ad ingrassare i majali.
In questa regione nessun’altra eminenza è da rimarcarsi, ad eccezione di Montiùda, dalla quale scopresi grande estensione intorno. È sparsa di macchie, di lentisco, e di cistio, e vi nasce un po’ di pascolo.
Gli animali che si educano, sono vacche, capre, pecore, giumenti, cavalli, e porci. I buoi per l’agricoltura sono congiunti in 36 gioghi, le vacche sommano a capi 150, le pecore a 600, le capre a 200, i giumenti a 100, i cavalli a 25. Il cacio non è di alcuna riputazione, e non eccede la consumazione del paese.
La cacciagione si esercita contro conigli, lepri, e pernici. Il vicino fiume durante l’inverno vedesi popolato di anitre, e di galline acquatiche.
Due o tre sorgenti poco considerevoli sia per la qualità, sia per la quantità trovansi nel monte: sono assorbite prima di toccare le sponde del fiume. Questo è un confluente del Caralìta, che finora non ha un nome proprio nella corografia sarda, sebbene molti ne abbia nello sviluppo della sua linea entro i diversi territori, che bagna (Vedi articolo Trejenta). Scorron le sue acque a ponente del paese alla distanza di 8 min. Il suo guado trovasi nella stessa direzione sulla strada a Pimentèl: non è pericoloso, che dopo grossi temporali, estendendosi allora circa un quinto di miglio. Le inondazioni recano sempre gravi danni agli orti; e quando accadano prima che le messi siano conservate, si rischia di perderle, da che le aje si fanno presso alle rive. A mezz’ora dal paese presso il luogo, dove esisteva l’antica popolazione di Santàdi, ossia Natali, pare di riconoscere il piede del ponte, per cui si passava ad una chiesa, di cui ora nè appariscono pure le vestigie. Ben però sono visibili quelle della detta popolazione, essendo frequenti le rovine, ed anche i sepolcri. Nella primavera pigliansi in queste acque bellissime trote, e nel romper dell’autunno una considerevole quantità di anguille, che vendesi con molta riputazione.
Questo territorio si traversa dalla strada provinciale della Ogliastra, e avvicinasi al paese poco più d’un miglio.
Baràli è distante da Pimentèl mezz’ora; da Ortacèsus e Samazzài 3/4; da s. Andrea, Senorbì, Arixi, Donòri un’ora; da Suelli, Sèlegas, Guamaggiore un’ora e 1/4; da Guasila un’ora e mezzo; dalla capitale 5 ore e mezzo. Le strade sono carreggiabili, ma non senza qualche difficoltà, principalmente d’inverno.
Di cose antiche altro non si può osservare, che le su accennate rovine di Santàdi, ed un sol norache sopra Montiùda, donde si vede tutto il cratere della Trejenta.
Comprendesi questo comune nel feudo di Trejenta appartenente al marchese di Villasor. La curia è stabilita in Guasìla, e le sono soggetti Guamaggiore, Ortacèsus, e Pimentèl. Per li dritti feudali V. Guasìla. Sono coscritti da questo paese 19 individui al battaglione di Serra-manna dei corpi miliziani.




[1] Vittorio ANGIUS, in Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna (a cura di Goffredo CASALIS), vol. II, Torino 1834, pagg. 161-164.