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martedì 30 marzo 2021

CORONGIU, UNA “VILLA” DI CONFINE

 CORONGIU, UNA “VILLA” DI CONFINE

Sergio Sailis

(Trexenta Storica)


Gli studiosi di storia sarda, e non solo loro, sono sempre rimasti incuriositi dal gran numero di insediamenti umani che nell’Isola, per i più svariati motivi, sono rimasti spopolati nel corso del medioevo con un’incidenza che raggiunge livelli ben superiori rispetto ad altri areali europei. Questi villaggi il più delle volte erano di ridotte dimensioni e composti da poche unità abitative spesso realizzate in prossimità di precedenti insediamenti nuragici, punici o romani e localizzati in modo da risultare più agevole e conveniente lo sfruttamento delle risorse produttive offerte territorio.

Il villaggio di Corongiu era uno di questi piccoli insediamenti rurali della Sardegna medievale; la “villa” dal punto di vista amministrativo era inserita nella curatorìa di Dolia (o Bonavolia) e dal punto di vista ecclesiastico faceva parte della Diocesi omonima.  



La sua precisa localizzazione è rimasta per lungo tempo incerta e pertanto gli studiosi che si sono occupati dell’argomento hanno sempre mantenuto una prudente riserva anche per via delle contrastanti testimonianze documentali. Day  si limitava a indicare la sua appartenenza al distretto di Monastir associandolo a Nurx (o Nuregi) che collocava genericamente tra San Sperate, Monastir e appunto Corongiu; la Terrosu Asole  invece lo poneva in territorio di Donori senza fornire ulteriori informazioni di supporto mentre sia Serra  che Casula  lo situavano genericamente nei pressi di Monastir senza ulteriori specificazioni.

Una più attenta rilettura di alcuni documenti, peraltro già ben noti agli studiosi, e quella di un manoscritto sinora sostanzialmente inedito consentono, pur con le dovute cautele, di ipotizzare la sua localizzazione in modo più puntuale ossia in territorio dell’attuale Pimentel e più precisamente proprio in località “Corongiu” a circa un km a nord-nord/ovest dal centro abitato. 

Se infatti si analizza con più attenzione la famosa “donazione della Trexenta” a suo tempo edita dal Tola,  che notoriamente espone l’elenco dei villaggi trexentesi in ordine geograficamente affidabile, notiamo, come aveva opportunamente evidenziato A. Era (che ebbe modo di riesaminare il manoscritto utilizzato dal Tola per la sua edizione ), che tra la villa di Funtana Sihuni  e quella di Dei  c’era una lacuna nel testo («sa villa de Funtana Sicinj, sa villa de [ … ], sa villa de Dey») e conseguentemente non ci è pervenuto il nome di una villa ricompresa nella donazione.

Sulla scorta di altri documenti però è possibile ipotizzare che il nome del villaggio mancante nel manoscritto sia proprio quello di Corongiu il cui territorio sarebbe quindi racchiuso a sud e a ovest tra i due centri sopra citati; questo giustificherebbe anche il fatto che, nella parte del documento dove vengono ripercorsi (sempre in rigoroso ordine geografico) i confini della curatorìa, il villaggio non è menzionato proprio perché situato all’interno della stessa.

Questa considerazione è supportata dal fatto che un interessante documento, come accennato sostanzialmente inedito, ascrivibile alla metà del ‘300 circa, che riepiloga per singola diocesi le rendite ecclesiastiche della Sardegna da assoggettare alla decima papale, fortunatamente ci informa sull’intitolazione della chiesa del villaggio di Corongiu, della Diocesi di Dolia, la quale era appunto dedicata ai santi Filippo e Giacomo: 


                                     
  
Fig. 1: Stralcio ACA, Real Patrimonio, reg. 2100, fg. 4v,

Episcopatus Doliensis […]. Item ecclesie Sante Elene ville Dei et santorum Philippi et Iacobi de Corongi. XXV libres.  


Nel sud Sardegna le chiese intitolate ai due apostoli contemporaneamente non sono molto frequenti e nella zona compresa nelle curatorìe di Dolia e Trexenta e più in generale nella Diocesi di Dolia forse l’unica esistente (peraltro oggi ridotta a un cumulo di ruderi di scarsa leggibilità) era quella posta nel territorio dell’attuale Pimentel proprio in località “Corongiu” dove, su un preesistente insediamento nuragico, insistono delle vestigia che la tradizione locale, peraltro confermata dalla toponomastica,  ritiene siano pertinenti alla chiesa di San Filippo; questi dati ci consentono quindi di poter qui localizzare il villaggio corroborati anche dall’associazione che nel documento si fa villaggio di Dei che infatti era situato nelle vicinanze poco più a nord in prossimità degli attuali confini tra Pimentel e Samatzai.


Fig. 2: Stralcio I.G.M.: Foglio 548 sezione III – Donori, scala 1:25.000


Questa ipotesi di localizzazione è inoltre suffragata dal fatto che, come vedremo più in dettaglio nel prosieguo, in diversi altri documenti di epoca aragonese il villaggio è spesso attestato unitamente ad altri insediamenti della zona quali Barrala, Fontana Siuni, o Nurx  ecc. ed in alcuni viene specificatamente ascritto alla Trexenta; si tratta dunque di quella fascia territoriale posta ai confini delle due curatorìe giudicali di Dolia e Trexenta che dalla fase finale del XIV sec. rimase spopolata per alcuni secoli per essere ripopolata solo dal Seicento in poi.

Questa zona — che durante il periodo della dominazione pisana nella documentazione d’archivio risulta costantemente inserita nella curatorìa di Dolia — in seguito entrerà nell’orbita della Trexenta per fare parte integrante stabilmente della “encontrada” allorché il procuratore reale Berengario Ça Plana il 22 marzo 1464 dà il proprio assenso alla restituzione delle tre ville spopolate di Barrala, Corongiu e Fontana Sihuni fatta da Antonia d’Erill a favore di Galceran de Besora per il prezzo di 250 lire di moneta cagliaritana. 

La stessa Barrali poc’anzi citata inoltre in diversi documenti è associata ad altri villaggi situati della parte meridionale della Trexenta; in un documento del 12 ottobre 1416 la “villa”, ormai spopolata, per esempio viene concessa in feudo, senza però espliciti obblighi di ripopolamento, a Bartolomeo Pino unitamente alle altre ville spopolate di Villa Campo e Donigala Alba: «villas (vocatam) depopulatas de Barrala (depopulatam) sitam in capite Callari in encontrata de Parte Volla et (quoddam saltum vocatum de Villa de Campo) villam vocatam Donicalalba sitam in curatoria dela Tregenta nec non et quendam saltum vocatum de Villa de Campo situatum in dicta curatoria dela Tregenta presentis insule Sardinie». 

La zona di “Corongiu” si presenta come una piccola vallata costeggiata a est da colline marnose (tra le quali quella nota con il sinistro nome di “Bruncu sa furca” ai confini con Samatzai) e a nord e ad est da emergenze arenarie e granitiche; è attraversata da un torrente perenne anche se di scarsa portata denominato Santu Fibippu che nasce qualche km più a nord e lambisce la zona in esame. 

L’area risulta frequentata sin dal periodo neolitico come testimoniato dalle pregevoli domus de janas di “Corongiu” situate nelle immediate vicinanze mentre a circa 200 m. in linea d’aria è presente l’altro complesso di domus di “S’acqua salida” in località “Pranu Efis” dove si riscontrano anche tracce di insediamenti del periodo nuragico e romano.  


Come accennato, durante il periodo giudicale il villaggio faceva parte del Giudicato di Cagliari e amministrativamente era compreso nella curatorìa di Dolia; purtroppo per questo periodo ci mancano attestazioni scritte  e bisogna attendere la “VI Compositio” pisana del 1320–1322 per ritrovare il villaggio che viene così censito dai toscani: 


Villa Corognu Curatorie Dolie

pro datio suprascripte ville lb. VI s. VI

pro dirictu tabernarum vini suprascripte ville s. X

pro quondam saltu suprascripte ville lb. I s. XIII d. VI

item grani starella XXXVII

et ordei starella XXI


Dai valori sopra esposti, confrontati con altri della stessa curatorìa o di quelle limitrofe, possiamo immaginare che il villaggio doveva avere una consistenza demografica alquanto modesta. La sinteticità del documento inoltre, quasi sicuramente riepilogo di un lavoro più ampio non pervenutoci, non ci consente purtroppo di avanzare ulteriori analisi sulla situazione economica del villaggio se non quella che nel suo territorio l’attività agricola era preponderante con la coltivazione di cereali e vigne e che il Comune toscano possedeva dei terreni demaniali che, come consuetudine, concedeva in affitto alla comunità ricevendone un canone annuale. Non vengono evidenziati, forse perché marginali, dati sull’allevamento di bestiame, sulla coltivazione di orti e neanche su altre indispensabili attività economiche come il commercio o l’artigianato che comunque possiamo ipotizzare sicuramente presenti come in altre realtà isolane.

Il Comune Pisano era entrato in possesso del villaggio unitamente al terzo del giudicato cagliaritano agli inizi del ‘300 a seguito delle disposizioni testamentarie di Mariano II d’Arborea.  I sovrani arborensi infatti, e segnatamente Guglielmo di Capraia, come noto, avevano acquisito il controllo di un terzo del Giudicato di Cagliari a seguito delle operazioni militari del 1257/1258 che portarono al suo smembramento ad opera delle forze congiunte dello stesso Guglielmo, di Giovanni Visconti di Gallura, e di Ugolino e Gherardo della Gherardesca con il fattivo concorso del Comune di Pisa che ritenne per sé la città di Cagliari (Castello Castri) e il circondario. 

Il dominio diretto del Comune di Pisa era però destinato ad essere di breve durata; l’infeudazione bonifaciana del Regno di Sardegna e Corsica del 1297 e la conseguente invasione catalano-aragonese pone infatti fine alla supremazia pisana nell’Isola. Pisa a seguito della pace del 1324 deve rinunciare al possesso dei territori sotto il suo controllo mantenendo, anche se per poco tempo, solo quello di Cagliari e delle sue appendici. 

Con la conquista iberica quindi anche il villaggio di Corongiu, come del resto la maggior parte dei villaggi isolani, deve fare la traumatica esperienza con una nuova istituzione giuridica: il feudalesimo. 

I catalani infatti, ancor prima della conclusione delle operazioni militari per la completa conquista dell’isola, procedettero al frazionamento degli antichi distretti amministrativi giudicali, le curatorìe, concedendo in feudo i vari villaggi sardi a personaggi che in un modo o nell’altro avevano contribuito alla conquista dell’isola in armi o finanziamenti. Così nel 1325 anche Corongiu viene concesso a Guillem Sorell unitamente a Pirri, Cebolla e San Vetrano nel Campidano di Cagliari.  

Guillem Sorell era un maiorchino approdato nell’isola al seguito dell’Infante Alfonso; inizialmente risiedeva a Bonaria — la cittadella fondata dagli aragonesi in contrapposizione e dirimpetto alla Castel di Castro pisana — dove godeva di una discreta reputazione anche politica. Nel 1325 infatti è uno degli ambasciatori (assieme a Bernat de Muntalegre) che si recheranno a Corte per conto del governatore e degli amministratori di Bonaria per protestare contro l’atteggiamento dei castellani pisani di Castel di Castro che, a loro dire, impedivano l’ingresso alla città; fautore della completa estromissione dei pisani dalla Sardegna nell’occasione espose al sovrano una serie di argomenti per dimostrare che l’intenzione dei toscani non fosse pacifica e che anzi avevano intenzione di proseguire la guerra.  E in effetti da lì a poco ripresero le operazioni militari che si conclusero con la definitiva sconfitta pisana nell’aprile del 1326.

Il possesso di Corongiu da parte del Sorell è però di breve durata; come molti altri feudatari che avevano scarsi e non troppo radicati interessi nell’isola appena un anno dopo infatti, monetizzò la concessione rivendendo i suoi feudi a Ramon Ça Vall.

L’interesse per la Sardegna di Ramon Ça Vall invece era più solido. Era infatti un importante mercante barcellonese che, assieme a suo fratello Bertran, era giunto nell’isola anch’egli al seguito dell’Infante Alfonso del quale era apprezzato collaboratore, consigliere e finanziatore.  Ben presto all’attività mercantile associò importanti cariche pubbliche e nel 1328 lo troviamo come Amministratore delle spese reali in Sardegna e nel 1329 ottenne l’amministrazione delle rendite della dogana. Per i loro servigi alla corona entrambi i fratelli vennero quindi ricompensati con la concessione in feudo di diversi villaggi.  

Ramon era sposato con una certa Caterina dalla quale ebbe due figli: Ramon II e Bertran II (questi nomi sono una costante nell’onomastica di questa famiglia sia nel periodo precedente alla loro presenza in Sardegna che nei secoli successivi) e muore tra il 1343 e il 1344. 

Nella conduzione dei feudi gli succedono quindi i suoi figli  ma Ramon II muore poco dopo, nel 1348,  forse per effetto della peste, e probabilmente Bertan lo seguirà a breve in quanto nello stesso anno i feudi passeranno a Ramon III (Ramonet),  figlio di Ramon II, che, in quanto ancora minorenne, verrà assistito dalla nonna Caterina che a sua volta si avvarrà di persone di fiducia come Arnau Rossinyol il quale nel 1351 per esempio provvedeva a versare il censo feudale per le ville di Cepola, Pirri, Sanvitrano, Gesico, Corongiu (per un importo di 80 fiorini pari a 160 lire alfonsine)  o di B. de Vilar che svolse lo stesso incarico nel 1353. 

La gestione dei feudi (ad iniziare da Ramon I la famiglia infatti come detto in precedenza aveva costituito un discreto patrimonio feudale sia per concessione del sovrano che per acquisto da altri feudatari) però non era una incombenza semplice specialmente in un periodo turbolento caratterizzato dall’inizio della guerra tra Aragona e Arborea pertanto Caterina nel 1355, approfittando della nuova politica di Pietro IV instaurata dopo il Parlamento del 1355 , cederà alla Corona tutti i possedimenti feudali sardi,  compresa Corongiu, e Ramon III, che forse non mise mai piede nell’isola, una volta maggiorenne assumerà delle cariche pubbliche a Barcellona dove diventerà membro del Consiglio dei Cento nel 1366.  

La rivolta di Mariano IV aveva quindi evidenziato la precarietà del sistema difensivo impostato dagli aragonesi. La frammentazione del territorio isolano in tanti piccoli feudi — che nelle intenzioni iniziali serviva a garantire la difesa dell’isola senza troppi oneri per le asfittiche finanze della Corona  e nel contempo ad impedire la concentrazione di grossi feudi in mano a poche famiglie con i conseguenti disordini interni che caratterizzavano i regni iberici — aveva mostrato tutti i propri limiti. Inoltre bisogna considerare che molti dei titolari feudali una volta concluse le operazioni militari erano ripartiti per la penisola o erano periti per cui i feudi sardi risultavano carenti dal punto di vista difensivo. Da qui la necessità di Pietro IV di riorganizzare il Regno di Sardegna e di riacquistare alcuni feudi per concederli ad altri personaggi in grado di difenderli con le armi.

Tra le decisioni prese da Pietro IV nel 1355 vi era inoltre quella di inquadrare militarmente le ville ponendo i castelli al centro dell’organizzazione militare e nominando il sardo Alibrando de Asseni ed i catalani Huguet de Sent Just e Bernat de Ladrera a capitani affidando loro diverse curatorìe. Alibrando de Asseni si doveva occupare delle curatorìe di Sulcis e Sigerro, Huget de Sent Just le curatorìe di Nuraminis, Siurgus e Gerrei mentre Bernat de Ladrera quelle di Campidano, Dolia e Sarrabus; ognuno dei capitani aveva il comando di 100 uomini a cavallo e 200 a piedi. 

Pertanto nello stesso 1355 Pietro IV, dopo aver acquistato i feudi dei Ça Vall, concede Corongiu a Bernat de Ladrera, un militare che aveva rivestito anche l’incarico di Capitano di Iglesias, officio poi revocato in quanto incompatibile con l’essere anche feudatario. 


Nel cosiddetto “Repartimiento de Cerdeña” predisposto nel 1359 la villa di Corongiu risulta ancora in possesso di Bernat de Ladrera unitamente a Simbilia (Campita), Puuli (Galilla), Montecartello (Gallura), Vinyola (Vinyola), Fomennale (Campita), Napot (Sols), Sorpe (Galtali-Gallura), Nuruli Galtali) e Isarle e altri salti. 



Fig. 3: Stralcio ACA, CV, reg. 43, Componiment de Sardenya, fg. 28r


Proprio l’infeudazione al Ladrera è per noi importante al fine di stabilire la sua localizzazione poiché nell’atto il villaggio viene esplicitamente ascritto alla curatorìa di Trexenta;  di per sé l’errata indicazione della curatorìa non sarebbe un caso infrequente ma in questo caso ci consente di stabilire che il villaggio era situato in una posizione di confine tanto da indurre all’errore i funzionari regi.


                                         Fig. 4: Stralcio ACA, R.C., reg. 1028 f. 102r

Il possesso del Ladrera sarà comunque di breve durata in quanto muore nel 1361 per cui i feudi rientrano nuovamente nella disponibilità della Corona. 

Durante la nuova parentesi in cui il villaggio tornò alla Corona era scoppiata nuovamente la guerra tra Aragona e Arborea. Le truppe giudicali di Mariano IV avevano invaso il territorio del Regno di Sardegna e dopo aver portato un infruttuoso assedio a Cagliari sul finire del 1366 si erano acquartierate proprio in Trexenta.  L’acquartieramento di truppe, per quanto amiche o presunte tali, non era mai un fatto ben visto dalla popolazione locale in quanto spesso gli ordini venivano disattesi e si effettuavano azioni di razzie o furti a danno dei residenti. In questo periodo il nostro villaggio probabilmente si avviava verso un inesorabile tracollo demografico che raggiunse il suo apice verso la fine del secolo.  

Nonostante non ne avesse più la disponibilità materiale Pietro IV comunque continuava a elargire infeudazioni; così nel 1367 il villaggio di Corongiu e le altre ville già appartenute a Bernat de Ladrera site nei capi di Cagliari e Gallura vennero infeudate a Guillem de Canelles  anch’esso membro di una famiglia che possedeva altri feudi anche in terra iberica. 

Anche l’esperienza di Guillem de Canelles come feudatario di Corongiu è destinata ad essere di breve durata se già nel 1369 ne risulta in possesso Pere Bardoner cui Pietro IV concesse la signoria di Corongiu nel Dolia e altre ville che erano state in possesso del Lardera come Sorpe in Gallura, Cargeghe nel Figulinas e di Vignola nel Taras; probabilmente però anche questa volta si trattava più che altro di una concessione solo nominale e anche il Bardoner non riuscì ad entrarne materialmente in possesso per via della guerra. 

Nuovamente nel 1373 re Pietro IV infeuda a Ponç de Jardì (Poncio de Jardino) varie ville, tra le quali anche Corongiu che nel documento viene ascritta ancora una volta alla «Encontrada de Tragenta». 

Sono anni critici per i catalani: le guerre prima con Mariano IV poi con i suoi figli Ugone ed Eleonora (e con Brancaleone Doria) e successivamente con Guglielmo di Narbona costringono gli iberici sulla difensiva mantenendo nell’isola il possesso di pochi capisaldi. Per poter liberare Brancaleone Doria dalla prigionia seguita alla presa di potere di Eleonora questa viene costretta a sottoscrivere la pace del 1388 con gli aragonesi e tra i funzionari presenti figura anche il Jardì. 

La situazione per le armi palate si ribalta dopo la battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409; la sconfitta di Guglielmo di Narbona infatti consente ai catalani di riprendere il controllo della maggior parte dei territori perduti in precedenza specialmente nel sud dell’Isola mentre nel nord la guerra continuerà ancora sino al 1420 allorché Guglielmo di Narbona si accorda per la cessione dei propri diritti alla Corona aragonese; resteranno comunque focolai di rivolta sino al 1448 con la definitiva capitolazione di Nicolò Doria.

Nel frattempo la nostra Corongiu era rientrata per l’ennesima volta in possesso della Corona che come al solito, proprio a causa della guerra, aveva urgenti necessità finanziarie per cui Alfonso il Magnanimo nel 1432 decide di vendere alcune ville: Senis, Sipola, Corongiu e Barrala. La prima, situata nel Parte Valenza venne ceduta a Pietro Jofre  mentre le ultime due, assieme a Nuraminis, Nuraguens e Borro tutte situate nella curatorìa di Nuraminis e tutte spopolate, vennero concesse in feudo a Roger de Besora il primo marzo 1436 in ricompensa per i suoi servigi in occasione della guerra contro i Doria ed in modo particolare nella presa del castello di Monteleone. 

In questo modo Roger de Besora si ritrovava ad essere confinante con il fratello Jaume che già dal 1421 era entrato in possesso dell’intera Encontrada di Trexenta  e che, come vedremo, in seguito porterà alla ricongiunzione dei due feudi.

Roger de Besora, sposatosi con Bartolomea, non avendo figli maschi alla sua morte lasciò come erede sua unica figlia Angelina sotto la tutoria della madre e degli zii. Per la giovane ereditiera venne concordato il matrimonio con Manuel de Ribelles  ma i feudi di Corongiu e Barrali, forse a causa di operazioni finanziarie, finirono in mano ad Antonio de Sena che li utilizzò, con la baronia di Ussana, per costituire la dote di sua figlia Antonia in occasione del suo matrimonio con Francesc d’Erill.

Antonia de Sena, nel frattempo rimasta vedova del suddetto Francesc d’Erill, nel 1464 acconsentì al riscatto dei villaggi disabitati di Corongiu, Barrala e Funtana Siuni da parte di Galceran de Besora;  da questo momento queste ville, benché spopolate, entreranno a dar parte definitivamente dell’Encontrada de Tregenta seguendone le vicende storiche.

Finito il periodo delle guerre con la Corona d’Aragona non cessò però quello delle epidemie e delle carestie pertanto la zona, nonostante la fertilità del suolo, continuò a restare spopolata per un periodo di tempo piuttosto lungo sino al periodo delle rifondazioni Seicentesche. Durante quel secolo infatti, per iniziativa dei signori feudali, in questa zona assistiamo alla fondazione (o rifondazione) di diversi villaggi con gli insediamenti di Donori (1619),  Barrali (1646)  e di Pimentel (1698).  Proprio quest’ultimo sarà destinato ad avere come “fundamentu”, ossia come dotazione territoriale, i territori già appartenuti agli ormai scomparsi villaggi medioevali di Corongiu, Funtana Siuni, forse di Nuraxi nonché probabilmente una parte di quello di Siocco.

Infiniti passaggi di mano quindi per un modesto villaggio di confine tra due curatorìe ma soprattutto pericolosamente vicino alla frontiera tra due entità statuali, quella arborense e quella aragonese, che si sono combattute mortalmente per decenni senza esclusione di colpi.


venerdì 27 luglio 2018

1409. Notizia della vittoria di Sanluri

1409. Notizia della vittoria di Sanluri
Sergio Sailis

Barcellona, 22 luglio 1409: “Sapiats que digmenge a XIIII del present mes estants en la casa de Bellesguard e desijants molt saber novelles de nostre molt car primogenit lo rey de Sicilia e de la sua host veem de la finestra de la nostra cambra venir una galea de les parts de levant que arriba en la plaja de Barchinona e a cap de un poch fo ab nos en G. Pujada quins dix que la dita galea venia de Sardenya e que portava bona nova pero que ell encara no la sabia: e apres fort poch estants nos en la dita finestra veem venir mossen Jacme Roure et en Johan Barthomeu ab III harauts fort corrents e abans que fossen dos trets de ballesta prop de la dita casa de Bellesguard començaren tots a cridar a altes veus e vengueren cridant «victoria, victoria, Arago et Sanct Jordi». ”


Sappiate che domenica, il 14 del mese presente, stando nella casa de Bellesguard e desiderando molto avere notizie nel nostro molto caro primogenito re di Sicilia e della sua armata vedemmo dalla finestra della nostra camera venire una galea dalle parti di levante che arrivava nella spiaggia di Barcellona e poco dopo fu da noi messer G. Pujada che disse che la detta galea veniva dalla Sardegna e che portava buone nuove che però egli ancora non conosceva; e dopo pochi istanti noi nella detta finestra vedemmo venire messer Jacme Roure e messer Johan Barthomeu con III araldi correndo forte e prima che fossero a due tiri di balestra vicino alla casa di Bellesguard cominciarono tutti a gridare ad alta voce «victoria, victoria, Arago et Sanct Jordi»




(img. ruderi della torre di Bellesguard fatta costruire da Martino I.
Da una sua finestra il sovrano vide arrivare 
i messaggeri con la notizia della vittoria)

Re Martino d’Aragona risponde a Pere Torrelles (dalla quale estrapoliamo alcuni passaggi)informandolo di avere ricevuto la sua lettera  e quella di suo figlio (che purtroppo non ci sono pervenute) recanti la lieta notizia circa “lo fet de la batalla e de la victoria que sen era seguida e de la preso de Sanct Luri”. Pochi giorni prima, il 14 luglio, era infatti arrivata a Barcellona la notizia del vittorioso scontro di Sanluri e il sovrano da conto al capitano di tutti i festeggiamenti e delle orazioni fatte nella cattedrale di Sant’Eulalia e nelle altre chiese della città.

La gioia del sovrano sarà però destinata a durare ancora per pochi giorni. Qualche giorno dopo infatti riceverà la notizia della morte del suo primogenito e unico erede al trono.
(Sui ruderi della torre di re Martino agli inizi del ‘900 Gaudì
fece realizzare un’altra torre diventata oggi
importante attrazione turistica di Barcellona)
"E pujants alt en la dita casa faerennos reverencia ens donaren les letres que portaven del dit nostre molt car primogenit e de vos e dels altres ens recitaren largament lo fet de la batalla e de la victoria que sen era seguida e de la preso de Sanct Luri les quals havia XV jorns que eren estades fetes e encara res non sabiem de que haguem inextimable plaer e singular consolacio e per sobres de goig prenguemnos a plorar e encontinent votam de anar a la seu de Barchinona e de enclourens aqui per tenirhi novena e complir altres vots que ya haviem fets esperants la bona novella dessus dita."

giovedì 29 giugno 2017

1409 Sanluri: la vigilia della battaglia

1409 Sanluri: la vigilia della battaglia.
(di Sergio Sailis)

Siamo in una calda, torrida, notte di fine giugno, esattamente quella del 29 giugno 1409. In prossimità di Sanluri, nell’accampamento dell'esercito arborense, i fuochi del bivacco sono accesi per preparare un pasto caldo. Si sa, in battaglia servono energie, molte energie e l'ora della battaglia si avvicina, inesorabilmente.

Non tutti gli uomini hanno fame, un morso attanaglia loro lo stomaco, impedisce quasi di deglutire ma sanno che comunque qualcosa devono mangiare; devono mantenersi in efficienza, il nemico incombe. Sanno che trascorsa questa breve ma infinita notte estiva l’indomani sono attesi da una giornata decisiva. L’alba che sorgerà tra qualche ora per molti di loro sarà forse l’ultima; in parecchi non vedranno mai quella del giorno successivo.  
Le prime avvisaglie dello scontro imminente si erano già avute neanche tre settimane prima. L'ammiraglio Sancio Ruiz de Lihori si era  infatti spinto baldanzosamente con un grosso contingente di armati sino alle porte del borgo cercando, inutilmente, di provocare la reazione arborense; si era dovuto accontentare, ma questi d'altronde erano gli ordini ricevuti, di fare qualche vittima, razziare dei capi di bestiame e catturare dei prigionieri, sempre utili e preziosi in queste circostanze. Ma questo era solo un primo, primissimo assaggio e nell'accampamento lo sanno bene. Sanno bene che il tempo della diplomazia è ormai finito e la parola è già passata alle armi.

Gli esploratori sono infatti rientrati all’accampamento e hanno confermato che poco lontano, a sole due leghe di distanza, il bagliore di un’altra serie di fuochi rischiara la notte. Una possente armata composta da nobili e cavalieri in cerca di gloria e da avidi mercenari che accompagnano Martino, re di Sicilia e infante d'Aragona, ha infatti piazzato il campo vicino a Flamayra.
img ACA
il "Castell de Caller" nel 1358


Sono partiti da Castell de Caller “lo jorn de sant Aloy” e si sono accampati per concedersi anch'essi un giorno di riposo prima della battaglia risolutiva "porque la gente de pie hallase refresco y pudiese descansar por ser el tiempo muy caluroso y requerirlo aquella regiòn que es como la de Berberia"; anche loro hanno bisogno di ristorarsi dalla fatica e dalla calura delle assolate pianure sarde. Sono uomini temprati alla guerra però, che vivono per la guerra, che la praticano per arricchirsi oppure per quello che oggi possiamo definire semplicemente uno sport, un passatempo per nobili annoiati. Gente del mestiere quindi, con equipaggiamento e armi adeguate, lucide corazze, barbute e bacinetti, cotte di maglia intessute fini, spade di ottimo acciaio ben temprato; non sono dei semplici contadini, è gente avvezza alle battaglie.



manoscritto
di P.Tomic
cronaca della battaglia


L’indomani una selva di lance e di cavalieri armati di tutto punto sventolanti le insegne quadribarrate gialle e rosse sarà schierata contro gli uomini raccolti sotto i vessilli dell’albero deradicato. E forse ci saranno anche quelle con i quattro mori; si, forse ci saranno, ma saranno tra quelle aragonesi.
emblema del
re d'Aragona:
i quattro mori
emblema del
re d'Aragona:
le "barras"
 

La consistenza numerica dei due schieramenti è decisamente rilevante rispetto agli eserciti dell’epoca; le fonti, tutte di parte catalana, sono discordi sul numero degli effettivi, per quanto riguarda i catalano-aragonesi si va dagli 8 ai 12 mila uomini mentre per i giudicali dai 16 ai 23 mila. Siciliani, catalani, aragonesi, valenzani, maiorchini, provenzali, mercenari papalini tutti arrivati per soffocare quella che per loro, ma soprattutto per il loro sovrano, è considerata una rivolta.

Una rivolta che dura da troppo tempo e da reprimere quanto prima assicurando così definitivamente alla Corona un’isola che parecchi problemi, spese, e lutti ha causato in appena poco meno di novanta anni; tanti sacrifici finanziari e umani che lo stesso sovrano non mancava di ricordare e evidenziare alle Corts di Barcellona quando chiedeva il loro sostegno per la spedizione: "... com pocs nobles, cavallers, ciutadans e altres hòmens notables e de preu son qui no hagen perduts en aquella illa frares, pares, germans e parents, e no hagen la sepoltura d'aquells en la dita illa". Anche a costo di combattere una battaglia campale dall’esito spesso incerto e per questo generalmente evitata quando possibile. Ma l'Infante Martino, il giovane re di Sicilia, è impaziente, ha già deciso per lo scontro e anzi ha già dovuto rinviarlo di un mese, e non vuole ritardare ulteriormente l'appuntamento con la Gloria, desidera impetuosamente "resemblar los virtuosos fets e actes del senyor rey nostre pare e de sos predecessors". Vuole anch'esso dimostrare il suo valore sul campo di battaglia al pari dei suoi antenati.



emblema del
re di Sicilia
E poi la posta in gioco è alta, troppo alta; il Visconte di Narbona è giunto nell’isola da pochi mesi e non da tutti viene ancora accettato come legittimo Giudice arborense. Bisogna evitare che il suo consenso si consolidi, che si estenda, bisogna intervenire risolutamente ora che l’occasione sembra propizia, e l'Infante è ben determinato a farlo. Ha già deciso. Anche perché Guglielmo si è già alienato le simpatie del partito doriano. Poco dopo essere sbarcato nell'isola ha catturato e incarcerato il vecchio Brancaleone Doria che morirà prigioniero a Bosa; le gerarchie devono essere chiare, da subito. E anche a Oristano i malumori crescono. Si, forse è proprio l'occasione favorevole.
emblema di
Guglielmo di Narbona

E in quell’accampamento ci sono forse anche dei sardi; si, ci sono forse anche gli ogliastrini “bons e leyals vassals”, come li aveva definiti l’Infante Martino appena qualche settimana prima invitandoli a raggiungerlo per combattere i ribelli, essi sono rimasti fedeli al re e hanno seguito il loro signore, Berenguer Carroç conte di Quirra, in questa spedizione ed in seguito ne verranno ben ricompensati.

Dormire è quasi impossibile, non resta che attendere pazientemente l’alba. Nel campo arborense sono tanti, provenienti dalle zone più disparate dell’isola, dal Meilogu ai Campidani, dal Monreale alla Planargia, dal Nurcara alla Marmilla, dalla Barbagia al Goceano, sono affluiti da ogni dove, ragazzi imberbi di appena 14 anni o anziani veterani di tante campagne combattute con Mariano, colui che con le buone o con le cattive ha saputo compattare un popolo sotto le proprie insegne, e dei suoi figli Ugone prima e Eleonora poi, o del marito di lei, quel Brancaleone mai troppo amato dal popolo ma buon capitano sul campo di battaglia. E attendono.
emblema attribuito a Guglielmo di Narbona
e quello di sua moglie Margherita d'Armagnac

emblema del
Giudicato d'Arborea:
l'albero deradicato


E attendono anche i francesi, i genovesi, i lombardi, i toscani; anche questa gente bene armata e capace di combattere, appositamente ingaggiata dal Visconte nella speranza che risulti determinante sull’esito dello scontro. Nonostante l’ancora scarsa conoscenza dell’isola tutto sommato Guglielmo è riuscito tuttavia a raccogliere un’armata numericamente considerevole, certo eterogenea e non bene equipaggiata come gli avversari ma comunque temibile.

E in quest’attesa nell’aria notturna del campo risuona il rumore delle coti, centinaia di coti che sfregano lentamente ma in modo deciso sull’acciaio, virghe e spade devono essere ben affilate; gli archi vengono tesi per saggiarne elasticità, robustezza e integrità mentre altri uomini controllano gli zoccoli dei cavalli, le finiture e agli animali non fanno mancare l’acqua e qualche manciata d’avena, senza eccedere, non devono appesantirsi. Tutto deve essere pronto e l’alba si avvicina inesorabilmente, lentamente e allo stesso tempo velocemente, troppo velocemente.

Anche nel campo aragonese fanno altrettanto; tutti sanno che l’indomani la vita può dipendere da questi semplici gesti e sanno che l’odiato nemico tanti dispiaceri è stato capace di dare in passato. Negli anni passati nessuna famiglia aragonese, catalana, valenzana o maiorchina poteva dire di non aver avuto almeno un morto in Sardegna.

Ma mentre nel campo sardo si svolgono meccanicamente questi preparativi il pensiero degli uomini inconsciamente vola alle rispettive case, lontane o vicine che siano. Il timore di non rivedere i volti cari incombe; gli anziani genitori, le donne amate, i bambini saltellanti e festosi con le loro grida stridule che in altre occasioni avrebbero arrecato fastidio oggi qui non ci sono e mancano, quanto mancano. Non sono qui e forse non rivedranno mai più quelle persone tanto amate.

Gli uomini sanno che l’indomani la tensione sarà ancora maggiore, la paura prenderà il sopravvento e i muscoli meccanicamente si rilasseranno, i bisogni corporali cominceranno a defluire involontariamente, e si ritroveranno a dover calpestare le feci, il vomito e le urine di chi li precede e poi, quando il combattimento entrerà nel vivo, dovranno calpestare il sangue denso che ha intriso il terreno rendendolo scivoloso e poi i corpi e le membra dei compagni rimasti colpiti o quelli degli avversari. Se sono fortunati. Altrimenti vorrà dire che i calpestati saranno stati loro; così era la battaglia in quei tempi. E sanno che non ci sarà neanche un fiore nella propria tomba, anzi, una tomba per loro non ci sarà proprio.

Quanto avrebbero però voluto questi uomini affilare la falce anziché la spada con quella cote che hanno in mano; la maggior parte di loro non sono soldati, sono pastori, sono contadini e proprio in questo periodo hanno tanto, tanto da fare in campagna. Da qualche parte infatti il grano nei campi è ancora da mietere oppure i covoni sono ancora nelle aie in attesa della trebbiatura; chissà se riusciranno nuovamente a trebbiare. Sono stati chiamati a raccolta in fretta e furia, controvoglia, e non hanno potuto mettere al sicuro il loro bene più prezioso; da questo dipende il sostentamento di un anno intero per tutta la famiglia e per questo molti se possono cercano di andare via, "vaynu a metiri et fari loru fatti". E coloro che sono rimasti domani potrebbero non esserci più, un'altra falce li attende, molto più tagliente e inesorabile. Specialmente con il filo della vita, della loro vita.

Anche all’interno del villaggio di Sanluri la preoccupazione e l’ansia serpeggia. Gli abitanti sanno che le mura non potranno garantire la sicurezza a lungo; il nemico ha avuto diversi mesi a disposizione per prepararsi e ha opportunamente realizzato un buon numero di macchine ossidionali. Sugli spalti i difensori, sardi, genovesi, francesi e lombardi accatastano le frecce per gli archi e i quadrelli per le balestre e posizionano le altre armi di difesa; bisogna prepararsi a qualsiasi evenienza, le battaglie campali sono imprevedibili e tutto può succedere.

Forse ora alcuni degli abitanti rimpiangono di essersi rifiutati, o almeno hanno tentato, di lavorare gratuitamente al potenziamento delle fortificazioni del villaggio come aveva chiesto loro il Visconte giusto tre mesi prima. Ma quella non era la loro guerra pensavano e invece ora essa è qui, proprio alle porte del villaggio, a poche miglia, a poche ore.

tradizionale emblema
dei Visconti di Narbona
Guglielmo di Narbona, incoronato Giudice d’Arborea appena qualche mese prima, non è ancora riuscito in questo breve periodo ad accattivarsi le simpatie della popolazione. Pur essendo un discendente del Giudice Ugone è pur sempre uno straniero che prima d’allora mai era stato in Sardegna e, dopo decenni di guerra, la gente è ormai stanca di combattere. Soprattutto per un estraneo, per uno sconosciuto. Malumori serpeggianti forse non prontamente colti dalle elites o non tenuti nella debita considerazione. Forse sono stati volutamente ignorati e chissà, forse anche aizzati perché "... li sardi staynu divisi intra loru  …" e Martino questo lo sa bene. Ne è stato informato, i prigionieri servono anche a questo.

E lo stesso avevano pensato nel mese di maggio molti uomini della Marmilla e delle zone limitrofe; anch’essi si erano rifiutati di radunarsi sotto le insegne giudicali e non avevano intenzione di muoversi per raccogliersi verso i luoghi fortificati come era stato loro comandato. Ritenevano preferibile consegnarsi al vincitore e dicevano “… nos volen moure e que volen esser de aquell qui mes porà ...“ nella speranza di restare indenni dai combattimenti, di esserne risparmiati e invece, come era prevedibile, la guerra è arrivata proprio in queste contrade di confine. E lascerà i suoi segni per lungo tempo; segni di morte e di devastazioni come ogni guerra. Dopo la battaglia per diversi mesi l’intera zona verrà percorsa da soldatesche in cerca di bottino comandati da nobili iberici spesso in competizione e intenti a cercare di ampliare i propri possedimenti, Carroç in testa. Le donne saranno violate, gli uomini uccisi, interi villaggi saccheggiati, distrutti e abbandonati dalla popolazione a volte definitivamente. Ma questo ancora loro non lo sanno, non possono saperlo e probabilmente mai lo sapranno perché forse la morte colpirà anche loro prima ancora di rendersene conto.

immagine
dell'Infante Martino
Gli esiti della battaglia sono ben noti. Il sacrificio si è compiuto, la battaglia viene vinta dagli iberici e il numero dei caduti tra i sardi è consistente, dai 5 ai 7 mila uomini, una mattanza, uno stermino. Ed è anche l’ora della resa dei conti, Martino “obtenguda per gràtia de Déu la dita batalla per força d’armes, se n’entrà la dita vila de Selluri, la qual fo mesa a sacomano”; il villaggio viene preso d'assalto e messo a ferro e fuoco, e la mattanza continua, muoiono almeno altre mille persone e tanti, tantissimi, sono i prigionieri destinati ad esecuzioni sommarie o ad essere ridotti in schiavitù, meglio se donne o bambini.

E gli stendardi regi possono quindi finalmente sventolare dalla cima del castello sanlurese mentre Guglielmo ha a stento trovato rifugio nel poco distante castello di Monreale.




Armoriale di Gerle:
insegne del re d'Aragona

 Il 14 luglio 1409 re d’Aragona Martino I riceve dal suo omonimo figlio una lettera portata con la galea di Johan Barthomeu e recante la notizia della brillante vittoria conseguita a Sanluri; nello stesso giorno il re, decisamente compiaciuto, si affretta a rendere partecipi i principali sovrani europei e suoi parenti della “ … execuciòn e exterminio feytos por eli, obrant l’ayuda de nuestro senyor Dios, el qual es endreçador de la justicia y fechos de los reyes, cuentra lo vescomte de Narbona e los seguaces suyos e toda la naciòn sardesca traydora e rebelle a nos e al dito rey … “ Hah! Le soddisfazioni della vita. Soddisfazioni destinate però a durare ben poco. Un mese, un solo mese, neanche. Ma Martino detto l’Umano ancora non lo sa. Non sa che di li a poche settimane la “febre pestilencial” colpirà suo figlio privando la casata dell’erede al trono. Non sa ancora che anche lui lo seguirà dopo neppure un anno e che la sua schiatta sarà destinata a estinguersi con la sua morte nonostante, appena ricevuta la triste notizia, arditamente si fosse riproposto di "... passar fort prestament en la isla de Sardenya per dar fi deguda a la execucio commençada per lo dit rey de Sicilia contra los sardos a nos e a ell rebelles …". Non sa ancora che aveva ragione frate Eiximenis dicendo "... car de mil reys, no se'n salva un."; per la sua stirpe la profezia del frate si avvererà.
immagine
di Re Martino




La Sardegna è quindi ormai quasi vinta e con essa la “naciòn sardesca traydora e rebelle” che è incorsa nelle ire di Dio e del Re suo rappresentante in Terra, com'è logico e giusto che sia.

Si sa, chi perde paga, fa parte delle regole del gioco, i ribelli devono essere pacificati e la pacificazione è dura, e non si ferma nel tempo, la devastazione di Sanluri non basta, non può bastare "E vensuda la primera batalle pres lo glànola, de què morì e, mort, mossèn Pere Torrella vansé la segona batalla, d'on foren desbaratats, morts e presos e cativats tots los sarts e donats per catius tots, axì hòmens com fembres e imfants en gran nombre" Tante altre vittime inermi si aggiungono ai morti in battaglia.
Ne sa qualcosa Maria che, catturata a seguito del saccheggio di Sanluri, diverrà schiava di Bartolomeo Pellisser di Bleda, nell’isola di Maiorca; riacquisterà la libertà solo nel 1416 e, una volta libera, non farà comunque più rientro nell’isola. Forse non aveva più affetti nel suo luogo di origine, forse erano morti o forse semplicemente non aveva più voglia di ricordare momenti terribili ormai dimenticati; non lo sapremo mai. Sappiamo solo che lascerà i suoi beni terreni all'ospedale dei poveri di Soller.
Oppure la povera piccola Barbara, di 4 anni, appena 4 anni; catturata anch'essa a Sanluri sarà venduta sulla piazza di Barcellona da un marinaio maiorchino nell'agosto 1409. Merce ancora acerba certo, ma non per questo meno appetibile e commerciabile.

Oppure di Astacia, anch’essa di Sanluri, che nel 1419 riacquisterà la libertà per gentile concessione del suo proprietario, il barcellonese Iacobus Gali; il mercante si trovava a Pisa per affari e sentendo avvicinarsi l’ora della dipartita sottoscriverà dinnanzi ad un notaio due atti pubblici ridando gratuitamente la libertà ad Astacia alla quale forse si era nel frattempo affezionato.
Oppure ancora Antonia, sempre di Sanluri, che assieme ai suoi due figlioletti era schiava di Guillem de Bordils; per la loro liberazione nel 1417 si mossero dalla Sardegna, recandosi sino a Girona, sua madre e una nipote offrendosi di pagare un riscatto grazie anche all'interessamento caritatevole del vescovo Dalmau de Mur. Oppure ancora di Ventura, schiava di Pere Sarraì che viveva nel castello di Cabanes; anche per lei il padre affrontò il viaggio dalla Sardegna però sfortunatamente non era in grado di pagare il riscatto di 80 libbre e pertanto ancora una volta ci fu l'intervento, sempre nel 1417, del compassionevole e sempre generoso vescovo Dalmau de Mur che chiese ancora una volta l'aiuto dei suoi diocesani per mezzo delle elemosine.
E ugualmente Falacia, catturata a Sanluri all'età di 15 anni e affrancata nel 1418 "en remissio de nostres pecats" da Clemença (vedova di Pere de Queralt, signore di Santa Coloma e barone di Queralt) quando aveva più o meno 24 anni allorché era in procinto di sposarsi con Antoni Çapera e che, per i servizi fatti ed eventualmente decidesse di fare, ricevette in dote 10 libbre e i vestiti per il matrimonio; Falacia rimase quindi a Santa Coloma al servizio della generosa signora la quale, l'anno successivo, affrancò anche la cinquantenne Comptesa, anch'essa "captiva y serva mia, de la terra de Cerdenya" e sposata ad un altro sardo, Nicolau Archedi, dei quali però non sappiamo l'esatta provenienza.
Chissà quante Marie, Barbare, Astacie, Antonie, Venture, Falacie avranno avuto quella infelice sorte così come tante altre rimaste tristemente anonime.
 
E a questo triste banchetto vuole partecipare anche re Martino; anche lui reclama per tempo una parte di questo miserevole bottino umano e il 3 agosto 1409 richiede 15 o 20 sardi e una sarda che sappia impastare per destinarli alla sua Torre di Bellesguart da lui recentemente acquistata e dove stava eseguendo dei lavori: "Sappiats que nos havem mester pera les obres de la Casa nostra de bellesguarduns XV. o XX. sards e una sarda qui sapia pastar de edad de XXXV. en XL anys." e devono essere inviati con sollecitudine, con le prime imbarcazioni in partenza dalla Sardegna, le necessità regali sono impellenti, il sovrano non può aspettare, deve rifarsi il giardino lui. E poi deve anche farne omaggio degli schiavi sardi; il 27 settembre ne regala quattro alla contessa d'Urgell sua cugina. Come dei cavalli o come dei capretti, pura e semplice merce di scambio. E se per caso la contessa ha bisogno di altro basta scriverlo al sovrano che "nos les complirem de bon grat". Ma quanto è gentile e premuroso. 
ruderi della torre
di Bellesguart nei pressi
di Barcellona

Ma il fato è in agguato. Ancora è all'oscuro dell'infelice destino del suo "molt car primogenit", e la notizia lo travolgerà dopo poche ore; sarà il futuro San Vincenzo Ferrer ad assumersi il pesante onere di portarla in quella sua stessa amata residenza di Bellesguart dove intendeva destinare i prigionieri sardi e da dove, solo pochi giorni prima "de la finestra de la nostra cambra" aveva scorto la galea che portava le liete notizie della vittoria e udito tutti quanti che gridavano festosi "victoria, victoria, Arago e Sanct Jordi". Evidentemente a Sant'Eulalia non sono bastate le processioni e le orazioni in suo onore e neppure tutti i Salve Regina recitati ogni giorno nella cattedrale e in tutti i monasteri e chiese di Barcellona per rendere grazie a Dio della grazia ricevuta.

Molti altri dei "captius" sardi non avranno la stessa fortuna di alcuni dei casi prima citati; persone delle quali spesso non ci è pervenuto neppure il nome saranno condotti in terra straniera, alcuni catturati e venduti in tenera età, e non riusciranno mai più a rivedere le proprie famiglie. Qualcuno tenterà anche di fuggire, ma la Sardegna è lontana, troppo lontana, a un mare di distanza, un grande mare, infinitamente grande.
Lo sa bene Pietro Serra che si trovava a Minorca schiavo di Pere de Parets; lui si riuscì a fuggire ma, attraversando quel mare che lo separava dall'amata terra natia, viene spinto da una tempesta sulle coste nordafricane della Barberia, tra gli infedeli. Finì per essere portato, nuovamente schiavo, questa volta a Bugia dove, per far cessare i maltrattamenti, il poveretto rinnegò la fede cristiana. Ma il nostro era reattivo, non si perse d'animo; riuscì nuovamente a fuggire assieme ad altri schiavi e quando finalmente stava per arrivare sulle coste della Sardegna ancora una volta il destino si accanì impietoso contro di lui. L'imbarcazione sulla quale viaggiava venne intercettata da una nave maiorchina che nel 1413 lo condusse a Maiorca dove venne riconosciuto come schiavo fuggitivo e riportato al suo antico proprietario.

Alcuni avranno in seguito la fortuna di essere riscattati dai familiari o, come abbiamo visto, liberati dai rispettivi proprietari altri invece finiranno i propri giorni al duro lavoro nelle galee o nei campi di qualche misero sperduto villaggio iberico o ancora a servizio nelle case dei nuovi padroni di Barcellona, di Valencia o delle Baleari.
Così è la dura sorte degli sconfitti. Arregoda sa battalla.

 

lunedì 25 luglio 2016

Morte di Martino il Giovane

Morte di Martino il Giovane
di Sergio Sailis

“… et dies gaudii conversus fuit in luctum et dominus rex Aragonie, pater eius, auditis malis rumoribus de morte filii fecit fieri pro eo in sede Barchinone sollempnes exequias durantes per octo dies continuos” (Cronicó de Pere d’Arenys). Si potrebbe così dire che, come il titolo di una nota telenovela degli anni ’80, anche i ricchi piangono. Il 25 luglio 1409 a Cagliari infatti spirava Martino re di Sicilia. Le sue fatiche amorose con la leggendaria “bella di Sanluri” (causa alquanto improbabile) o molto più verosimilmente la contrazione di una malattia - forse la malaria - che in poco tempo (nonostante la giovane età) consumò il fisico del sovrano, non consentirono all’erede al trono aragonese di apprezzare i risultati della vittoria da lui riportata a Sanluri contro i “rivoltosi” sardi il 30 giugno 1409 e a suo padre Martino il Vecchio di gioire ulteriormente per questo importante risultato.

(img. da P. Tomic, Histories e conquestes dels Reys de Aragó e Comptes de Barcelona , 1448)

Così il Tomic su questo avvenimento (nell’immagine): “E haver fet lo rey los grans fets dessús dits après alguns dies sen tornà en Càller e, com fou en Càller, dins viii jorns lo pres febre pestilencial, de la qual febre morí lo jorn de sant Jaume, qui és a xxv de juliol, de què tota la victòria tornà en plor e ab gran dol, no sens rahó, que en aquell jorn se perdé la honor e prosperitat de la nació cathalana. E aprés quatre jorns que lo rey fou mort, lo seu cors fou soterrat en la seu del castell de Càller, ab gran honor, de què·s pot dir ab veritat que lo cors de aquest rey és mils acompanyat e sta ab gran honor de tots los barons, nobles e cavallers e gentils hòmens, qui eran morts en la dita conquesta e abans e aprés, los quals ya eran dins la dita seu, cascuns ab ses armes de sobre lla hon jauen los corsos, lo que és ab gran honor dels linatges de cascuns de aquests.” (Tomic)
 

Non si sa con esattezza quale sia stata la malattia contratta dal rampollo catalano; gli storici ipotizzano, come accennato in precedenza, che la morte sia dipesa dalla malaria contratta forse durante la fase di avvicinamento a Sanluri. Le varie cronache d’altronde parlano genericamente di " ...febre pestilencial … ” oppure che " ... fuit infectus aere pessimo Sardinie ... ". Le stesse domande a suo tempo se le pose probabilmente anche il Valla che infatti scrisse nella sua “Historia de Fernando de Aragón”: “ … morí a Càller, víctima d’una febre que havia contret i que acabà amb la seva vida en pocs dies. La febre no havia estat causada ni per la calor, perquè malgrat que a Sardenya hi fa una calor sufocant a l’estiu, encara no havia començat la calor forta; ni per la contaminació de les aigües, perquè Càller no està infectada per estanys, bé que n’hi ha molts a l’illa; ni per la inclemència del cel o per algun contagi, ja que cap dels qui eren amb ell emmalaltí. …” notando comunque come gli altri membri della spedizione non avessero altrettanto risentito della stessa malattia.

La stessa indeterminatezza la riporta anche lo Zurita il quale fa altresì una breve sintesi delle varie cronache: “Muerte de don Martín rey de Sicilia. Estando en la mayor fiesta y regocijo de la victoria que aquel príncipe hubo de sus enemigos, adoleció de calenturas; y aunque a 21 de julio pareció que estaba mejor del accidente, se agravó de suerte que murió dentro de cuatro días en la fiesta de Santiago: y según Tomich y otros escriben fue su mal de una fiebre pestilencial, aunque Lorenzo de Vala afirma que no se pudo atribuir a la contagión del aire, pues ninguno de los suyos adoleció de aquella dolencia. Martín de Alpartil añade otra causa por donde le sobrevino la muerte: que creyendo que había convalecido, le llevaron por complacerle una doncella sarda de Sant Luri, que era hermosísima, y siendo muy rendido a aquel vicio, le acabó la vida.”

 

lunedì 30 giugno 2014

La battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409

La disfatta Giudicale del 30 giugno 1409 a Sanluri

Con queste parole di Jeronimo Zurrita[1] che descrive la battaglia di Sanluri, combattuta il 30 giugno 1409 con la sconfitta delle truppe giudicali, si infrange il sogno di indipendenza dei sardi:
El rey de Sicilia se pasó al castillo de Cáller; a qué y con quién.

Salió esta armada de la playa de Barcelona a 19 del mes de mayo, y el rey de Sicilia con la suya se pasó al castillo de Cáller; y con la caballería que llevó de Sicilia que era mucha y muy buena y con la que después pasó a Cerdeña comenzó a hacer guerra a los enemigos. Estaban con él los condes de Módica, Agosta y de Veintemilla y el conde Enrico Russo de Mecina, don Artal de Luna conde de Calatabelota, don Gilabert de Centellas y don Jaime de Centellas que llevaron muy buenas compañías de gente de armas, don Bernardo de Anglesola, Augerat de Larta, don Gil Ruiz de Lihori gobernador de Aragón y el almirante don Sancho Ruiz de Lihori y don Juan Fernández de Heredia, sus hijos, don Guerau de Queralt y don Juan de Cruyllas, que era muy valeroso y fue siempre entre los principales en el consejo del rey de Sicilia y ninguna cosa se hacía sin su parecer.

Los castillos de Cerdeña se repararon de la opresión que habían padecido cuarenta años.

Con este socorro los que estaban en los castillos de Cáller y del Alguer y Longosardo se repararon de los trabajos y fatigas que habían pasado defendiéndose siempre de los enemigos con gran esfuerzo y constancia como muy fieles; y con la presencia del rey de Sicilia se aliviaron de una continua y muy dura opresión porque había cuarenta años que esban aquellos castillos cercados y en perpetua guerra.

Los genoveses que fueron desbaratados y presos.

Antes de la armada de Cataluña arribase a Cerdeña, teniendo el rey de Sicilia aviso que seis galeras de genoveses llevaban socorro de gente a los sardos, envió sus galeras para que les saliesen al encuentro; e iba por capitán dellas un caballero que se llamaba Francés Coloma, y peleó con los genoveses delante de la Linayra y los desbarató y venció y les ganó todas sus galeras. Y fueron en ellas presos su general que se llamaba Guillén de Mollo y Carlos Lomelino, Simón de Mar, Ambrosio de Grimaldo y un hermano suyo, que eran los capitanes.

De la manera que el rey de Sicilia salió del castillo de Cáller.

Después, siendo ya llegada la armada de Cataluña a Cerdeña y habiendo descansado la gente, teniendo el vizconde de Narbona un gran ejército junto en Sant Luri no sólo para resistir pero para ofender, determinó el rey darle la batalla. Salió con todo su ejército del castillo de Cáller un martes a 26 de junio y llevaba hasta tres mil de caballo y ocho mil de pie, y fuese alojando por las riberas, porque la gente de pie hallase refresco y pudiese descansar por ser el tiempo muy caluroso y requerirlo aquella región que es como la de Berbería. Y caminando desta manera llegó el sábado siguiente a una ribera que está a dos leguas de Sant Luri, y reparó allí el ejército y asentó su real. Detúvose el rey en aquel lugar la noche siguiente; y aunque los corredores del campo no descubrían los enemigos -que estaban con muy buena orden en Sant Luri esperando al rey a la batalla y solamente salieron hasta quinientos de caballo y algunas compañías de soldados- el domingo, que fue el postrero del mes, al alba salió el rey de su fuerte con sus batallas ordenadas y fuese acercando al lugar.

Pedro de Torrellas mariscal del ejército del rey de Sicilia.

Y mandó ir en la avanguarda a Pedro de Torrellas y dióle cargo de mariscal de todo el ejército y llevaba mil hombres de armas; y después seguían hasta cuatro mil soldados; y en la batalla iba el rey con toda la caballería, y después seguía la retaguarda. Y con esta orden hicieron su camino hasta una milla de San Luri.

Furiosa batalla donde se señaló y venció el rey de Sicilia.

Salió el vizconde de Narbona con toda la gente de caballo y de pie que allí se había juntado con sus batallas ordenadas; y -según se entendió de los mismos sardos que fueron presos en la batalla- eran de diez y ocho hasta veinte mil combatientes; y aunque se había dado tal orden por el rey que quinientos de caballo de los que llamaban bacinetes de la gente más escogida y de los más señalados caballeros se pusiesen a pie si los sardos echasen delante sus peones como era su costumbre y había determinado de hallarse con ellos, pero acercándose con su escuadrón a los enemigos la vía de Sant Luri, siguió hacia un cerro a donde se había puesto la batalla del vizconde, y ellos bajaron con buena orden para recibirlos. Y el rey mandó poner su caballería a la mano derecha y los de pie al otro lado; y comenzóse la batalla muy furiosamente en los primeros encuentros entre la caballería del rey y la de los enemigos, y en ella fueron a tierra muchos caballeros sardos y quedaron heridos algunos de los del rey. Y aunque en la batalla se señalaron muchos, pero entre todos el rey dio tal prueba de su persona que se conoció bien que imitaba en el valor a los reyes de quien descendía, que por el honor de su corona aventuraban sus vidas entre los primeros.

Duró la batalla por buen espacio; y fueron los sardos desbaratados y vencidos, y ganaron el estandarte del vizconde y fue preso el caballero que lo llevaba; y murieron en el campo hasta cinco mil, y recogióse el vizconde con los que escaparon huyendo de la batalla al castillo de Monreal; y siguieron los nuestros el alcance hasta las puertas dél. Murieron en esta batalla de la parte del rey muy pocos, y los más señalados fueron el vizconde de Orta, don Pedro Galcerán de Pinós y mosén Juan de Vilacausa y un caballero que era pariente del señor de Lusa.

Ganaron el estandarte del vizconde de Narbona prendiendo a quien lo llevaba.

Duró la batalla por buen espacio; y fueron los sardos desbaratados y vencidos, y ganaron el estandarte del vizconde y fue preso el caballero que lo llevaba; y murieron en el campo hasta cinco mil, y recogióse el vizconde con los que escaparon huyendo de la batalla al castillo de Monreal; y siguieron los nuestros el alcance hasta las puertas dél. Murieron en esta batalla de la parte del rey muy pocos, y los más señalados fueron el vizconde de Orta, don Pedro Galcerán de Pinós y mosén Juan de Vilacausa y un caballero que era pariente del señor de Lusa.

Por la gente del conde de Módica se ganó el castillo de Sanluri.

Entre tanto que la caballería siguió el alcance, los soldados fueron a combatir el lugar de Sant Luri y le entraron por combate; y pusieron a saco y murieron dentro más de mil hombres entre genoveses y sardos; y el castillo fue combatido y entrado por la gente del conde de Módica y de don Bernaldo Galcerán de Pinós.

El terror que a muchos potentados causó la victoria que tuvo el rey de Sicilia y lo que publicó.

Fue esta victoria de las muy señaladas y famosas que hubo en aquellos tiempos por parecer que se restituía con ella al rey la posesión de aquel reino que tanto tiempo había sido rebelde; y puso mucho terror y espanto no sólo a genoveses que eran enemigos muy declarados, pero a todos los otros potentados de Italia, estando a vista della un rey de tanto valor y con tan poderosa armada y con tanta reputación: porque se publicó que quería tomar la empresa de poner a Benedito en la posesión de la silla apostólica como verdadero sucesor de san Pedro. Y con esta ocasión se temía que había de emprender de pasar a la conquista del principado de Cápua y de las provincias de Pulla y Calabria por igualar al rey Ladislao y al rey Luis que contendían con todo su poder por la sucesión de aquel reino.

Pero así como hubo valor en él para alcanzar tan gran renombre de conquistador de los reinos de Sicilia y Cerdeña y daba esperanza que por su medio sucederían las cosas prósperamente fue tan desigual el suceso que casi en un instante volvieron a muy peor estado que antes.

Nonostante successivamente alla vittoria delle armi aragonesi sia stata posta una grossa enfasi sulla facilita' del successo, in realta' questo non era dato per scontato prima della battaglia. Infatti, come traspare da una lettera del 22 luglio 1409 inviata da Martino il Vecchio a Pere Torrelles nella quale il sovrano si congratulava per il successo e per la nomina a maresciallo all'indomani della battaglia , i timori in campo aragonese erano piuttosto presenti. Il re dice infatti: "E sapiats que som estats fort maravellats de la batalla, quar be' sab lo di nostre primogenit que no era axi empres". E' evidente quindi che nelle alte sfere iberiche si era consci dell'esito imprevedibile di uno scontro armato e sicuramente non erano paure legate solo a motivi dinastici essendo Martino il Giovane l'unico figlio maschio de re.

 



[1] Jeronimo ZURITA, Anales de Aragon, (edición de Ángel Canellas López. Edición electrónica de José Javier Iso (coord.), María Isabel Yagüe y Pilar Rivero), voll. I - VIII, Zaragoza 2003, pag. 1536 e segg.