MARIANO d’Arborea
Dizionario Biografico degli
Italiani - Volume 70 (2007)
di Antonello Mattone
MARIANO d’Arborea. – Giudice
d’Arborea, quarto di questo nome, nacque a Oristano probabilmente nel 1319,
secondogenito del giudice Ugone de Bas-Serra. Il padre aveva svolto un ruolo
decisivo nella conquista catalano-aragonese della Sardegna alleandosi con
Giacomo II re d’Aragona e fornendo al corpo di spedizione dell’infante Alfonso
un consistente aiuto economico e militare. Per ricompensare Ugone, che in base
agli ordinamenti altomedievali esercitava una sovranità piena, già nel 1323 il
re gli concesse in feudo «totum iudicatum Arboree» e i territori extragiudicali
allora in suo possesso. Per suggellare l’alleanza con Giacomo II, Ugone inviò Mariano
e il fratello Giovanni a Barcellona per ricevere un’educazione pari al loro
grado; i due furono trattati come membri della famiglia regnante: d’altra parte
gli
Arborea discendevano dai catalani visconti di Bas.
Arborea discendevano dai catalani visconti di Bas.
Nel 1333-35 Alfonso IV concesse
loro dei feudi nei territori del Principato (il villaggio di Molins de Rey e il
castello di Gelida). Nel 1336 Mariano sposò la nobile Timbors de Rocabertí;
anche cinque suoi fratelli sposarono nobili catalane. Il 7 apr. 1332 il re,
assegnando a Mariano i castelli di Goceano e Marmilla nella Sardegna centrale e
a Giovanni quelli di Monteacuto e Barumele, ratificò un provvedimento di Ugone
del maggio 1331. Nel 1336 Mariano – armato cavaliere quell’anno – rappresentò
il fratello Pietro (III), succeduto a Ugone nel 1335, all’incoronazione di
Pietro IV. A Saragozza ebbe l’onore di tenere le redini del cavallo del re.
L’11 sett. 1339 il re nominò Mariano conte del Goceano e signore della Marmilla
e, in data ignota, Giovanni signore di Monteacuto e Bosa. Mariano tornò in
Sardegna forse nel 1341 o alla fine del 1342 con la moglie e i figli Ugone e
Beatrice (recenti studi hanno corretto l’opinione che vedeva Eleonora
secondogenita). Gli anni barcellonesi furono un’esperienza fondamentale nella
vita di Mariano, che poté osservare istituzioni, forme di governo e
organizzazione amministrativa di una grande monarchia. Nell’atto di fondazione
(emanato entro l’ottobre 1336) del nuovo villaggio di Burgos, Mariano mostrò di
tener conto della realtà feudale e delle trasformazioni economiche e sociali
del mondo rurale introdotte dalla conquista aragonese: ordinando la
costituzione del borgo annesso al castello del Goceano, definì privilegi e
incentivi alla colonizzazione, il sistema amministrativo della «villa» e le sue
pertinenze territoriali, delineò l’organizzazione produttiva del futuro
villaggio e concesse lo sfruttamento esclusivo del «Saltu novu». Oltre la
concessione di terre in proprietà individuale o comune, Mariano accordò ai
coloni franchigie ed esenzioni dai servizi reali e personali e dal pagamento
per un decennio delle gabellas e l’amnistia per ogni reato, tranne quello di
lesa maestà; confermò l’esenzione dalla prestazione della garanzia collettiva
per furti e danni ai villaggi vicini (incarica), dalla cui responsabilità per
gli indennizzi i giurati furono sollevati. I nuovi abitatori avrebbero dovuto
rispettare «sa carta nostra de logu de Gociani», il testo statutario, perduto,
emanato appositamente per la costituenda contea.
Tra il 1339 e il 1340 Mariano
commissionò al pittore lorenzettiano conosciuto come «Maestro delle tempere
francescane» la pala di Ottana che raffigura il vescovo Silvestro e il
donnikellu Mariano nelle vesti di cavaliere cinto di spada (Serra).
Ai primi del 1347 Pietro (III)
morì senza discendenti diretti e Mariano salì sul trono di Arborea. Agli inizi
proseguì la politica filoaragonese del padre e del fratello; anche se già da
qualche anno si avvertivano i segni di crisi dell’alleanza, per il mancato
riconoscimento da parte della Corona del ruolo di predominio degli Arborea
nell’isola. Quando scoppiò la guerra tra Pietro IV e i Doria, che avevano ampi
possedimenti nel Nord della Sardegna e i borghi fortificati di Alghero e
Castelgenovese (oggi Castelsardo), Mariano, pur restando fedele al re, si
mantenne defilato. Nell’agosto del 1347 i Catalani furono sconfitti dai Doria
nella battaglia di Aidu de Turdu nei pressi del villaggio logudorese di Bonorva
e i pochi scampati si rifugiarono nel castello del Goceano: nel 1348 il re
affidò a Mariano la procura per trattare la pace con i Doria.
Non è semplice, anche per la
carenza di fonti di parte giudicale, stabilire i motivi della rottura
dell’alleanza tra l’Arborea e l’Aragona. Sullo sfondo era l’insanabile
contrasto tra la sovranità regia, che voleva limitare e ridimensionare i poteri
di Mariano riconducendoli nell’alveo feudo-vassallatico, e quella giudicale,
che si considerava autonoma e iniziava a nutrire dubbi sulla validità della
sottomissione feudale di Ugone (1323). Altro motivo non secondario del
conflitto fu la crescente rivalità di Mariano verso il fratello Giovanni che,
tra il 1338 e il 1346, aveva molto accresciuto patrimonio e potere acquistando
villaggi, terre e castelli nella Sardegna regnicola, divenendo signore di tutta
la Gallura superiore e, di fatto, il più grande feudatario del Regno: il
vincolo vassallatico lo legava sempre di più alla Corona e sempre meno al
Giudicato. Il re tentò di trovare un accordo tra i due, soprattutto sulla
necessità di reprimere la ribellione dei Doria. Mariano voleva incorporare nei
territori giudicali il castello e la villa di Bosa, importante porto della
costa occidentale, di cui era signore Giovanni, che, spalleggiato dalla corte
catalana, gli resisteva; Mariano lo fece catturare (estate 1349) e rinchiudere
nella torre di S. Filippo a Oristano, dove rimase sino alla morte, avvenuta
forse nel 1375-76. Il re ordinò a Mariano di liberare il fratello, affermando
che da lui e non da altri dipendevano i feudatari del Regno, ma Mariano rifiutò
sostenendo che l’intervento del re era un’intromissione negli affari del
Giudicato e che la propria azione era l’esercizio di un diritto, quello di
punire un suddito ribelle. Il contrasto tra Mariano e Giovanni si era dunque
trasformato in un aperto dissidio tra Mariano e il re.
Con astuto calcolo Mariano alzò
la posta per ricontrattare l’alleanza con l’Aragona. Il 31 marzo 1353,
rispondendo al re che gli chiedeva di radunare fanti e cavalieri per respingere
un’eventuale invasione genovese, gli propose di autorizzarlo ad acquistare la
fortezza e il territorio di Alghero, «ricettacolo di nemici». Non si trattava
di un vantaggio personale (poiché rappresentava un ulteriore aggravio di spese)
ma di una reciproca utilità: il vero sostegno della Corona in Sardegna era la
solidità dell’accordo con l’Arborea. In principio il re pensò di accettare la
richiesta; a corte era però forte il partito avverso a Mariano, i Montcada, che
peroravano la causa di Giovanni; altri sostenevano che non si dovesse cedere ai
ricatti di un feudatario sardo e da Cagliari, inoltre, il governatore generale
sconsigliava ulteriori ingrandimenti dei territori giudicali. La risposta fu
perciò negativa. Già qualche mese prima era stata segretamente aperta
un’inchiesta sui danni provocati da Mariano agli ufficiali e ai domini regi.
Pur mantenendo una posizione neutrale, Mariano si mostrava sempre più
compiacente verso i Doria, dando loro aperto sostegno in uomini e denaro,
permettendo alle loro truppe il libero passaggio nei territori giudicali,
rifornendo di vettovaglie la fortezza di Alghero. La situazione cambiò quando
il 18 luglio partì da Valencia una flotta comandata dall’ammiraglio Bernat de
Cabrera, che il 27 agosto sconfisse a Porto Conte l’armata genovese. Il 30
Alghero si arrese. Il 3 settembre Cabrera intimò a Mariano di presentarsi ad
Alghero per discolparsi del suo comportamento ambiguo e della arbitraria prigionia
di Giovanni, ma soprattutto per fare atto di sottomissione. Accettare avrebbe
significato ridimensionare la propria sovranità; Mariano preferì inviare in sua
vece la moglie Timbors, parente del Cabrera. Le trattative non ebbero
risultati, anche per l’atteggiamento contrario della Municipalità cagliaritana.
A metà settembre scoppiò inevitabilmente la guerra.
Le truppe arborensi entrarono nei
territori regi del Cagliaritano senza incontrare valide resistenze. Molti
villaggi si ribellarono ai baroni iberici e abbracciarono la causa giudicale.
L’esercito di Mariano occupò Quartu, a poche miglia da Cagliari, e tenne in
scacco la città. Il 18 settembre i consiglieri di Cagliari chiesero soccorso al
Cabrera, che si trovava nel Nord dell’isola: la situazione era precaria e gli
abitanti non osavano allontanarsi dal castello. Gli approvvigionamenti erano
difficoltosi poiché Mariano aveva tagliato i rifornimenti a Cagliari e a Villa
di Chiesa (oggi Iglesias). Solo il 6 ottobre il Cabrera sconfisse i Giudicali nei
pressi di Quartu e allentò la morsa. Nel Nord intanto divampavano le ribellioni
fomentate dai Doria: il 13 ottobre insorgeva la rocca di Monteleone e il 15
veniva «liberata» la fortezza di Alghero. Alla fine del mese Mariano e Matteo
Doria assediarono Sassari con 400 cavalieri e un migliaio di fanti. L’anno si
chiudeva con l’occupazione da parte degli Arborea e dei Doria di quasi tutta la
Sardegna rurale, restavano nelle mani del re Cagliari, Sassari, Villa di Chiesa
(ma anch’essa si ribellerà nell’aprile del 1354) e alcuni castelli.
Mariano aveva notevoli capacità
militari, come stratega e come comandante. Grazie alle cospicue esportazioni
cerealicole – egli stesso commerciava in proprio – il Giudicato aveva le
risorse per sostenere un esercito capace di confrontarsi alla pari con quello
catalano: disponeva di fanti e cavalieri reclutati nei villaggi e anche di un
corpo di balestrieri e di un forte nerbo di soldati di ventura comandati da
capitani italiani. Da una lettera (non datata) di Caterina da Siena a fra
Guglielmo d’Inghilterra su una progettata crociata risulta che Mariano aveva
dato la disponibilità ad andare in Terrasanta con un proprio esercito.
In ottobre iniziò a Cagliari
l’istruttoria del capitano generale del Regno nei confronti di Mariano per i
crimini di fellonia e lesa maestà. In realtà la guerra del 1353-54 era ancora
una rivolta feudale fatta a difesa dell’autonomia giudicale e degli
ingrandimenti territoriali acquisiti, ma evitando una rottura senza ritorno col
re.
Dinanzi al deteriorarsi della
situazione, Pietro IV allestì una costosissima spedizione per stroncare le
ribellioni nell’isola. L’enorme flotta, comandata dallo stesso re, arrivò il 22
giugno 1354 a Porto Conte: l’obiettivo era riconquistare Alghero.
L’assedio, durato cinque mesi, fu
un disastro militare e finanziario: la malaria mieté vittime tra soldati e
dignitari di corte. Mariano si attestò a Bosa con le sue truppe e al momento
opportuno si portò a sole 4 miglia dal re, ma non diede battaglia. Il re non
volle correre il rischio di una disfatta, che avrebbe pregiudicato la conquista
di Alghero e le stesse sorti della Sardegna, e preferì intavolare trattative
con Mariano e raggiungere un onorevole accordo.
Il 13 novembre fu firmata la
cosiddetta pace di Alghero, con la quale Mariano ottenne molti degli obiettivi
per cui aveva preso le armi: l’autonomia di governo del Giudicato, la libertà
di commercio dai porti arborensi, l’infeudazione delle terre galluresi e la
clausola che il governatore generale del Regno fosse persona a lui gradita. A
queste condizioni il 16 novembre Pietro IV poté impossessarsi di Alghero.
Raggiunta la tregua, il re si
dedicò alla riforma delle strutture di governo e alla unificazione
politico-istituzionale del Regno: dal 15 febbraio al 14 marzo 1355 presiedette
i lavori del primo Parlamento convocato in Sardegna. Mariano, membro dello
stamento militare, non si presentò all’assemblea (sarebbe stata un’aperta
sottomissione alla sovranità regia), delegando Ranieri de’ Gualandi. L’11
luglio fu stipulato a Sanluri un nuovo trattato di pace per dare assetto
definitivo agli accordi di Alghero, coinvolgendo anche i Doria. Mariano avrebbe
restituito al re alcuni castelli occupati durante la guerra, ma nel complesso
vide confermate tutte le condizioni a lui favorevoli. La sua fama superava i
confini dell’isola: venuto a conoscenza dell’alleanza stretta tra Mariano e la
Repubblica di Genova, Petrarca in una lettera (febbraio-marzo 1353) al doge «et
Consilio Ianuensium», pervasa da intenso calore retorico per la guerra «cum
externis hostibus», prendeva a pretesto la ribellione arborense per un più
ampio discorso sulle libertà italiane.
Col trattato di Sanluri si aprì
un decennio di pace, durante il quale Mariano si dedicò alla riforma delle
strutture di governo, al riordino della legislazione e alla modernizzazione
della società arborense.
Negli anni Cinquanta-Sessanta Mariano
emanò gli Ordinamentos de vingias de lavores e de ortos, il cosiddetto «codice
rurale», costituito da 27 capitoli che – dal cap. 133, che ha un proemio, al
cap. 159 – furono inseriti integralmente nell’edizione a stampa della Carta de
Logu del 1480 circa: mancano infatti nel precedente manoscritto quattrocentesco
(cfr. Besta, pp. 1-15), creando ripetizioni e antinomie col testo dello statuto
promulgato da Eleonora. Nel proemio del «codice» Mariano tracciava un desolante
quadro della realtà agraria dell’Arborea e del Logudoro e dichiarava di essere
stato indotto a emanare questi capitoli dai «multos lamentos» dei sudditi sullo
stato dei terreni devastati e isteriliti dalla scarsa cura dei proprietari e
dei pastori nel custodire il bestiame. Il «codice» esprimeva le traumatiche
trasformazioni della società agraria del Trecento dovute alla guerra, allo
spopolamento delle campagne, alla rapacità del regime feudale catalano,
all’abbandono delle colture a favore delle attività pastorali. Mostrando una
consapevole sollecitudine a favore della sicurezza dei coltivi, Mariano
tracciava le linee di una politica agraria che evidenziava con rigore una linea
di demarcazione tra agricoltura e pastorizia. Veniva costituito (capp. 133 s.)
un corpo di «jurados de padru» o «padrargios» per la sorveglianza delle vigne e
degli orti con l’incarico di verificare che fossero ben chiusi e di denunciare
il bestiame che danneggiava le proprietà, perseguire i ladri campestri e
stimare i danni. Si prescriveva che i proprietari di terreni dovessero
coltivarli a vigna o cederli a chi intendeva bonificarli; in caso contrario il
fondo sarebbe stato devoluto al Demanio (cap. 138). I proprietari di vigne e
orti erano obbligati a recintarli e a farli verificare dai giurati del
villaggio (cap. 134). Il bestiame trovato a pascolare nei terreni doveva essere
«tenturato», catturato o ucciso (capp. 135 e 137). Severe disposizioni erano
previste contro furti e danneggiamenti (capp. 142-145) e sconfinamenti di
bestiame (capp. 135-137, 148-156). Nel 1353 Mariano abolì il servaggio nei
territori giudicali e in quelli incorporati, forse per far fronte alla guerra
contro l’Aragona con uomini liberi e affrancati: una riforma di enorme portata
per i villaggi sardi, che stravolgeva gerarchie sociali consolidate.
Nel proemio della Carta de Logu
(emanata tra il 1390 e il 1392) la giudicessa Eleonora richiamò il testo della
precedente Carta (promulgata forse tra il 1367 e il 1374) da suo padre, che non
era stata emendata e riformata da oltre sedici anni e necessitava quindi di
revisione. Poiché non ci è pervenuta la Carta de Logu di Mariano è impossibile
stabilire quanto Eleonora abbia riprodotto o innovato della legislazione
paterna. Nella Carta di Eleonora, dunque, sarebbe stata inserita in pieno la
Carta di Mariano che esprimeva la cultura romano-canonistica del suo
compilatore (Era, 1960). La probabile data di promulgazione dovrebbe essere il
1374, anno plausibile per questa iniziativa (Cortese, 1999), poiché Mariano era
stabilmente in possesso di quasi tutto il territorio isolano. Non ha avuto
molto credito la tesi di Di Tucci secondo cui la Carta de Logu sarebbe stata
influenzata dal diritto catalano-aragonese: oltre la rielaborazione delle
antiche consuetudini locali anche la Carta di Mariano, come quella pervenuta di
Eleonora, si sarebbe inserita nell’ambito della tradizione statutaria italiana
e, in particolare, di quella pisana e avrebbe recepito ampiamente il diritto
romano che in Sardegna vigeva per via consuetudinaria. Un legame con la
tradizione culturale italiana era dato anche dalla persistenza nella
Cancelleria arborense – riorganizzata da Mariano – dei caratteri diplomatistici
e grafici sardo-pisani a proposito della scrittura (la minuscola
cancelleresca), dello stile della datazione (quello pisano), dei formulari
usati: si sarebbe trattato insomma di una «gotica cancelleresca arborense» che
avrebbe marcato un’autonomia dalla letra catalana con l’emanazione di
«documenti statali» recanti tutti gli «attributi della sovranità» (Casula,
1978).
Nel 1364-65 la ripresa del
conflitto contro l’Aragona si inserì in un diverso contesto politico e
diplomatico; innanzitutto Mariano aprì le ostilità approfittando della guerra
in corso tra Castiglia e Aragona: Pietro IV non era infatti in grado di
combattere su due fronti. Nel 1364, sfruttando a proprio favore i ritardi di
due lustri nel pagamento del censo dovuto alla S. Sede dal re, Mariano (che dal
1355 a sua volta non corrispondeva più il censo annuo al re) pensò di sfruttare
la propensione palesata da Urbano V di dare a lui l’investitura del Regnum
Sardiniae, togliendola a Pietro IV.
L’ipotesi sfumò, ma rende chiari
i disegni di Mariano: occupare tutta l’isola per poi tentare di ottenerne dalla
S. Sede il dominio; pur godendo di prerogative sovrane all’interno dei
territori arborensi, per diventare re di Sardegna aveva assoluta necessità di
un’investitura papale. Le trattative con la Curia proseguirono sino al 1374
quando Pietro IV ventilò l’ipotesi di una investitura feudale a Mariano del
Cagliaritano e di Villa di Chiesa. Mariano poneva come condizione per la pace
la concessione in feudo di tutta la Sardegna in cambio di una forte somma e di
un censo annuale, pur sotto l’alta sovranità aragonese; la richiesta non ebbe
seguito.
L’offensiva militare
antiaragonese si sviluppò di nuovo verso il Campidano e il Sigerro: nel 1365 Mariano
si mosse verso Cagliari conquistando villaggi e castelli e Villa di Chiesa, che
si era ribellata. Nella primavera del 1366 fu costruito a Selargius, alle porte
di Cagliari, un campo fortificato che bloccava i rifornimenti alla città. Le
truppe giudicali saccheggiarono i borghi cagliaritani e le saline, ma il
castello non era intenzionato a cedere. Mariano intanto, che disponeva ancora
una volta dell’appoggio genovese, aprì un nuovo fronte nel Nord. Nel 1367
guadagnò al proprio campo Brancaleone Doria, signore di Castelgenovese, già
alleato della Corona, aprendo le trattative per il matrimonio della terzogenita
Eleonora (nata probabilmente tra il 1350 e il 1352; la secondogenita Beatrice
aveva sposato nel 1363 il visconte Aimerich di Narbona), che avrebbe portato in
dote la rocca di Casteldoria. Un’alleanza con i Doria, cementata dal matrimonio,
era decisiva per la guerra anticatalana e la conquista dei territori isolani.
Pietro IV nel giugno 1368 sbarcò
a Cagliari un’armata che, approfittando della debolezza delle difese arborensi,
puntò su Oristano, che non era stata mai assediata dalle truppe aragonesi.
L’assedio durò poche settimane: il donnicello Ugone giunse in soccorso alla
testa di un esercito reclutato nei territori regi occupati. Mentre i Catalani
si preparavano alla battaglia, Mariano, con grande intuito, uscì dalla città
attaccandoli alle spalle e sconfiggendoli. Nel 1369, dopo breve assedio, fu
conquistata Sassari. Nel 1370 la presenza aragonese in Sardegna era ridotta
alle città di Cagliari e Alghero e ai castelli di San Michele, Gioiosaguardia,
Acquafredda e Quirra. Nel 1374 la flotta genovese, in appoggio a Mariano, forzò
il porto di Cagliari ma fu respinta dalla resistenza delle truppe regie.
Ma proprio nel momento di maggior
potenza, Mariano morì nel maggio del 1375 in un’epidemia di peste.
La data della morte di Mariano, tradizionalmente
fissata al 1376, è stata ora corretta sulla base di un dispaccio del
governatore del Capo di Sassari del 13 giugno 1375, che informava il sovrano
della morte del «jutge d’Arborea» e della grande «mortalidad» di peste (Sanna).
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