lunedì 14 luglio 2014

L’episcopato di Saladinus Doliensis (1335-1355)

L’episcopato di Saladinus Doliensis nella Sardegna regnicola del secolo XIV (1335-1355) [1]
di Antonio Forci

 
La diocesi di Dolia, alias Bonavoyla o Bonavolla, con chiesa cattedrale intitolata a San Pantaleone martire nella villa di Dolia o San Pantaleo, attuale paese di Dolianova (Cagliari), fu istituita dopo l’anno 1073 – durante il regno del giudice Orzocco-Torchitorio (1058-1081) – come suffraganea dell’arcidiocesi di Cagliari, con giurisdizione ecclesiastica sui territori delle curatorìe di Dolia o Parteolla, Galilla o Gerrei, Siurgus e Trexenta, oltre che sulla villa di Nuracato appartenente alla curatorìa di Campidano. Fu soppressa per volontà di papa Giulio II e unita a Cagliari nel 1503.
Dopo la presa di Santa Igia da parte del Comune pisano e della consorteria di nobili toscani ad esso legata (1257/58), il distretto episcopale ricadde interamente in quella terza parte del disciolto regno giudicale di Cagliari che per quasi un cinquantennio passò sotto il controllo del giudice di Arborea.
Fu questo un periodo di pace e relativa prosperità per la diocesi, che segnò profondamente i suoi destini, determinando un legame privilegiato con i regnanti d’Arborea sotto i quali, tra il 1260 circa e il 1288, furono ripresi e ultimati i lavori relativi alla fabbrica della cattedrale o meglio alla sua «ricostruzione in forme pisane di accento gotico» giunte sino a noi.
I termini cronologici di quest’ultima fase edilizia sono dati da tre epigrafi: due, scolpite in corrispondenza del portale a nord-est, ricordano il dominus P(etrus) de Cili, vescovo nel 1261, la terza, dipinta all’interno nel catino absidale, celebra il giorno della consacrazione avvenuta l’8 dicembre 1288, alla presenza di Mariano II de Bas-Serra, giudice d’Arborea e signore della terza parte del Cagliaritano.
Evidentemente il sovrano aveva provveduto in prima persona a portare a compimento la costruzione della cattedrale, tanto da rendere plausibile l’ipotesi che sia lui la figura regale scolpita in alto rilievo a destra del portale nord-orientale. Tuttavia, considerati i nuovi dati emersi dall’indagine, non è inverosimile che l’effigie ritragga il predecessore Guglielmo di Capraia il quale, morendo nel 1264, aveva lasciato al vescovado di Dolia la villa eponima, con tutti i suoi diritti e pertinenze, dopo aver con ogni probabilità finanziato il riavvio dei lavori nella chiesa cattedrale. Tale legato testamentario era stato rispettato, apparentemente senza contrasti, sia dal Comune di Pisa che dal re d’Aragona, essendo ben noto il passo del Componiment catalano-aragonese del 1358, esemplato dalla VI Composizione pisana del 1320-22, ove si legge:
Lo dit bisba [de Bonavoyla] ha e posseex la villa de Dolia en altra manera appallada de Bonavoyla per ço con los homens de la dita villa son servos propis del bisbat de Bonavoyla. En temps del pisa no eren tenguts de paguar al Comun piza alcuna cosa salvant que en la justicia de la sanch ho en altra maquitia ho actes ten solament e posar aqui maiors e altres oficials per lo dit Comun e quant sa feya naguna ost lo bisba era tengut de donar al dit Comun de Pisa IIII homens a cavall en serviy de la dita ost e del dit Comun.
Fu proprio il vescovo doliense Saladino, di cui andremo a trattare, a farsi forte di questo lascito presso il re Pietro IV affinchè gli ufficiali regi desistessero dall’angariarlo con indebite richieste di prestazioni e servizi; fu lui, nella prima turbolenta fase della guerra sardo-catalana, a entrare e uscire incolume dall’accampamento dei rivoltosi presso Quartu quando, contemporaneamente, l’arcivescovo di Cagliari era trucidato a Capo Carbonara dagli stessi ribelli; fu lui, poco tempo dopo, ad essere inviato alla corte del re d’Aragona come ambasciatore di Mariano IV che intendeva discolparsi dall’accusa di fellonia mossagli dall’ammiraglio Bernat de Cabrera; fu lui, teste nel processo istruito contro lo stesso Mariano, a fornire un’accurata distinzione fra le insegne proprie della Casa d’Arborea e quelle personali del giudice; fu ancora lui, infine, interrogato sui motivi che spinsero Mariano IV alla ribellione, a dare una spiegazione che non ha mancato di sollevare l’interesse degli storici per distinguersi dal tono tendenziosamente fazioso e poco obiettivo che in genere contraddistingue le testimonianze dei Procesos: «(…) iudex Arboree hoc idem fieri faciebat quia domini Cathalani volebant eum privare regno suo quod tenet, propter quod ideo iudex impugnat taliter Cathalanos ut melius se possit defendere ab eisdem.»
Ce n’è dunque abbastanza perché il personaggio, portatore oltretutto di un nome singolare, attirasse su di sé l’attenzione dello scrivente: Saladinus episcopus Doliensis, chi era costui?
2. Il nome
Questo prelato si distingue nel vastissimo panorama dei vescovi medievali dellOrbis Christianus per il suo nome di chiara matrice araba, derivato dalla latinizzazione dell’epiteto onorifico Salāh ad-dīn (“l’integrità della religione”), laqab del celebre sultano curdo Yūsuf ibn Ayyūb, più noto in Occidente come Saladino. Assoggettati Egitto e Siria, ristabilita l’osservanza sunnita in tutto il Vicino Oriente e riconquistata all’Islam Gerusalemme nel 1187, detto sultano si quadagnò in Europa, a dispetto della ferocia con cui è dipinto da certa iconografia, una straordinaria fama di uomo colto, saggio e avveduto, divenendo l’eroe della magnanimità cavalleresca e dello spirito di tolleranza tra cultura islamica e cristiana. Non desta quindi meraviglia la diffusione dell’antroponimo Saladino in Italia, specie nei livelli più altri della società, con attestazioni che spaziano dalla Dalmazia alla Sicilia fin dal secolo XII. Nel medesimo areale geografico il nome del sultano è assurto perfino a cognome di illustri casati a partire da un originario patronimico, senza considerare che Saladino, oltre che nome di battesimo o cognome, poteva anche essere un nomen iocosum, un nomignolo cioè derivato dal ricordo del cavalleresco sultano e delle sue leggendarie imprese presso i popoli occidentali. In alcuni casi è tuttavia verosimile che tale cognome rappresentasse il ricordo dell’effettiva partecipazione alle Crociate di qualche membro del lignaggio o meglio della libertà restituita dal sultano a molti cavalieri cristiani caduti nelle sue mani dopo il riscatto pagato dal papa Lucio III. Questi gentiluomini, apprezzando la lealtà, peraltro già nota, del sultano, vollero commemorare l’avvenimento col prendere il suo nome; così tra la nobiltà francese, spagnola, germanica e principalmente italiana, si trovano varie famiglie con lo stesso cognome Saladini.
Ad esempio a Zara, nei secoli XIII e XIV, è nota la nobile famiglia dei Saladini, un cui membro, Saladino Saladini, ebbe parte attiva nella cacciata dei veneziani dalla città dalmata nel 1311.
In Veneto, regione storicamente proiettata verso l’Oriente mediterraneo, si segnala il frate benedettino Saladino Dandolo, della nobilissima famiglia dogale dei Dandolo, che fu abate del monastero di San Giorgio Maggiore di Venezia dal 1294 al 1318, mentre un’altra famiglia del patriziato urbano, i Premarin o Premarino, vanta tra i suoi esponenti un Saladinus che fu, nel 1318, capitano della Riviera dell’Istria e commissario della repubblica di Venezia nella città di Pola; abitava a Bologna nel 1378 un Saladinus quondam Petri de Verona.
Un Saladino in stretti rapporti con la più alta nobiltà locale è poi attestato in Trentino a partire dal 1207, ripetutamente menzionato negli anni seguenti come gastaldo del vescovo di Trento a Malé, in una serie di provvedimenti del visdomino Pietro di Malosco.
In Liguria, una delle regioni più direttamente a contatto con l’Oriente islamico per via delle sue città marinare, varie attestazioni di questo nome sono note sin dai primi anni del Duecento: un Saladinus de Portu Mauricio compare nel 1203, un Petrus Saladinus è ricordato a Savona nel 1204, un Saladinus filius naturalis quondam Begini, burgense di Vernazza, è citato nel 1216, un Saladino, un Valens Saladinus, un Pasquale Saladino da Bavari, un Saladinus de Sauro e un Saladinus Caravellus sono documentati a Genova rispettivamente nel 1222, nel 1225, nel 1226, nel 1267 e nel 1338; abbiamo ancora un Saladinus de Rapallo nel 1251 e un Saladinus quondam domini Opecini de Trebiano nel 1285. In Lunigiana il nome si riscontra nella genealogia dei nobili di Fosdinovo (Massa e Carrara) già dal secondo decennio del secolo XIII, essendo noto in letteratura un «Saladinus quondam domini Saladini» nel 1268; un «Saladinus de Merzaxio de Lurexana», mercante, è attestato nel 1251; nel 1259 il monastero di San Venerio al Tino, isoletta nel golfo di La Spezia, annovera tra i suoi frati un Saladino, converso. Non si può poi non ricordare il Salado o Saladino Doria, vissuto a cavallo dei secoli XIII e XIV, membro della nobilissima famiglia di origine genovese dei Doria che tanta parte ebbe nelle vicende della Sardegna nel corso del medioevo.
A Serravalle Scrivia (Alessandria), alle pendici dell’Appennino ligure, è documentato un «Saladinus quondam Citelli, consiliarius de Serravalle» nella seconda metà del secolo XIII.
Nella Lombardia meridionale un Saladinus de Capharis è tra i mantovani che nel 1216 sottoscrissero il trattato di pace con Ferrara.
In Emilia e Romagna l’antroponimo deve essere penetrato abbastanza precocemente se già nel 1210 è documentato nella genealogia della famiglia Baratti, una delle più antiche e nobili della città. A titolo di esempio, citiamo inoltre un Saladinus Antinelli da Imola nel 1254, un Saladinus presbitero «ecclesie S. Mathei (…) de plebatu S. Crucis» (diocesi di Forlì) ricordato nei registri delle decime dell’anno 1290, e il nobile Saladino degli Onesti di Ravenna vissuto nel secolo XIII; nel 1385 si ricorda infine un Saladinus de Puntirolis da Forlì tra i protagonisti della congiura contro Sinibaldo Ordelaffi.
Per le varie attestazioni della Toscana ci limitiamo, per ovvie ragioni di brevità, a segnalare la nobile famiglia Saladini dei conti d’Agnano Castello di Volterra (Pisa) con cui era imparentato il nobile Ugo dei Saladini, poi santificato, vescovo della città dal 1171 al 1184; alla medesima stirpe apparteneva verosimilmente il Saladinus de Orciatico detentore di beni e diritti, nel 1212, nei castelli di Agnano e Orciatico, mentre un Iacopo di Saladino Saladini è menzionato nell’ambito delle trattative di pace tra Pisa e Volterra nel 1270. A Pisa – probabile patria del nostro – l’attestazione più antica riguarda tale Tunctarellus Saladinus citato tra i mille cittadini che nel 1188 furono chiamati a sottoscrivere e giurare la pace con Genova; in un’altra importante fonte onomastica del 1228, due Saladinus, un Saladinus Uguiccionis e un Ranerius Saladini figurano fra i 4300 pisani che giurano di mantenere l’alleanza stipulata con Siena, Pistoia e Poggibonsi. A Siena, tra le migliaia di antroponimi ricavabili dallo spoglio dei più antichi fondi pergamenacei dell’Archivio di Stato, emergono un Saladino giudice nel 1213, un Saladino giudice e notaio nel 1213-1214, un Saladinus Acti de Lunisiana nel 1230, un altro Saladino giudice nel 1247 e un Saladino del fu Ugolino, speziale, nel 1249; si ricordo poi, da altre fonti, un Saladinus Bonaguide, dominus dogane nel 1231. A Lucca, stando a quanto riportato in letteratura, avrebbe risieduto da tempi remoti una famiglia Saladini che occupò un rango distinto tra la nobiltà d’estrazione, mentre un Saladinus filius Ugolinelli regitoris de Ficecchio risulta nel 1302. Nella Garfagnana lucchese, l’antroponimo è attestato nel 1261 tra i nobili Gherardinghi, signori del castello delle Verrucole, con un Saladinus quondam domini Ghiberti de Verucola Gherardingorum sindicus comunis et universitatis nobilium et consortum Gherardingorum de Garfagnana. A Grosseto un Saladino di Nardo è testimone di un atto notarile del 1324. A Pescia un Saladinus Brinelli figura tra i capi dei Ghibellini che nel 1339 ripararono a Lucca per sottrarsi alla signoria della città di Firenze. Infine nel 1231, un Saladinus filius Baroncelli figura tra gli homines et personas de Plebe Vetere (Valdisieve) che giurano fedeltà al vescovo di Firenze.
Per il Lazio sono noti il mercante Saladinus de Civitate Veteri (Civitavecchia, Roma) nel 1252, il notaio Petrus Iohannis Saladini de Sermineto (Sermoneta, Latina) a partire dal 1305, un Massaruccius Saladini console del comune di Montalto nel 1307; a Sezze (Latina) sono documentati, nella prima metà del secolo XIV, un Petrus Saladinus camerario del comune, un Andreas Nicolai Saladini consigliere dello stesso comune e un Leonardus Saladinus, pedes.
Se in Campania i registri della cancelleria angiona registrano, nel 1275, un Saladinus de Neapoli, nelle Marche gode di una certa notorietà l’antica e nobile famiglia dei Saladini, una delle più illustri casate patrizie che dal 1300 in poi ebbero parte attiva nella vita di Ascoli Piceno; la chiesa ascolana venera inoltre un Saladino fondatore degli eremiti benedettini – un piccolissimo movimento pauperistico di eremiti delle grotte approvati da Gregorio IX nel 1234 – beatificato a nome di popolo dopo una vita di solitudine trascorsa nell’eremo di S. Angelo di Voltorino.
Infine in Sicilia si segnala, nella seconda metà del secolo XIII, un Iacobus Saladinus de Messana, membro di una facoltosa famiglia messinese che portava il cognome Saladino, oltre ad un Saladinus de Sergio, giudice regio di Palermo, attivo nella prima metà del secolo XIV.
In Sardegna le occorrenze del nome Saladino sono prevalentemente e significativamente concentrate nel Castello di Cagliari in epoca pisana, a partire dalla seconda metà inoltrata del secolo XIII: nel 1280 un Matteo Manuelis, figlio di Saladino Manuelis, è patrono della nave S. Antonio Kalarensis che trasporta a Genova un carico di merci varie (pelli, cuoi, lana, panni, grano, orzo, formaggio) imbarcato da alcuni mercanti nel porto di Arborea e diretto originariamente a Porto Pisano. Le pergamene del fondo Alliata nell’Archivio di Stato di Pisa citano, nel 1294, un «Saladinus filius condam Marignani Buctafave», in età pupillare; un «magister Gaddinus phisicus condam Saladini, burgensis Castelli Castri» nel 1321; una «domus heredum Saladini Marignani», confinante con un appezzamento di terra sito «in Castello Castri, in ruga inferiori marinariorum», è citata nel 1322; la stessa proprietà appare in un atto di poco posteriore come «terra et domus que fuit Saladini de Marignani in Castello Castri, in ruga marinariorum». Nell’agosto del 1326, all’indomani della seconda pace tra Pisa e Aragona, un Saladinus vinarius è attestato tra i pisani che ancora dimoravano nel Castello di Cagliari in ruga mercatorum. Al di fuori del capoluogo isolano è da rammentare il Saladinus de Mela Sardus che compare come teste di un atto notarile rogato a Bonifacio, in Corsica, nel 1290, il Saladino Doria, omonimo del citato nobile, «rector ecclesie de Totoroque Sorrane diocesis», nel 1341 e infine il «Saladinus rector ecclesie de Uta», ancora nel 1341, entrambi impegnati a versare le decime alla curia pontificia.
In questo quadro generale estremamente parziale, solo indicativo dell’ampia diffusione dell’antroponimo Saladino, emerge comunque il dato offerto dalla Toscana e la contemporanea attestazione tra i pisani del Castello di Cagliari tra l’ultimo quarto del secolo XIII e il primo del successivo, ciò che costituisce un primo importante indizio circa la provenienza del nostro prelato.
3. Le supposte origini pisane
Su Saladino episcopus Doliensis null’altro sapevamo fino ad oggi se non che occupava il seggio vescovile di Dolia nel 1341, che depose come teste nei famosi Procesos contro gli Arborea e che morì nel 1355 alla vigilia del primo parlamento sardo indetto dal re Pietro IV. Nessuno si è mai preoccupato di appurare la sua nazionalità, pur essendo evidente come il nome riportasse ad un’origine estranea rispetto ai regni della Corona d’Aragona.
Documenti inediti tratti dai registri di cancelleria dell’Archivio della Corona d’Aragona hanno apportato su di lui nuovi significativi dati che permettono, tra l’altro, di meglio precisare i termini cronologici del suo episcopato e di proporne l’identificazione col canonico della cattedrale di Cagliari Saladino Pisanello, pisano, qualificato come pullinus e possessore di una casa in Castello in vico mercatorum nel 1334. È pertanto più che probabile che il nostro vescovo appartenesse alla schiera di quei pisani nati e cresciuti nel castello di Cagliari e ivi stabilmente residenti da burgenses, termine quest’ultimo reso nelle fonti catalane con polins, latinizzato in pullini, rampolli. Dopo la prima pace tra Pisa e Aragona questi pullini si erano resi protagonisti di una sfortunata congiura nell’intento di consegnare il Castello di Cagliari al re Giacomo II; scoperti, quaranta dei migliori erano stati costretti alla fuga, due furono giustiziati dai castellani pisani. Esisteva quindi tra i pisani nativi del Castello un forte partito filo-aragonese nelle cui fila avrebbe potuto militare il citato Saladinus vinarius, proprietario di un immobile in ruga mercatorum, per il quale non è da escludere uno stretto legame di parentela col nostro canonico e futuro vescovo di Dolia.
Questi pullini continuarono ancora per qualcue tempo a dimorare in Castello, da cui tuttavia furono alla fine cacciati come sospetti, con l’eccezione dei soli canonici: è infatti del 1334 la regia provisione con cui Alfonso IV d’Aragona, dietro supplica dell’arcivescovo di Cagliari Gondissalvo, acconsentì a che i canonici della chiesa cagliaritana i quali si trovavano nella condizioni di “pullini”, potessero continuare a risiedere nel Castello di Cagliari nelle case di loro proprietà, ordinando al governatore generale Ramon de Cardona: «(…) quod omnes canonici dicte ecclesie qui pullini dicti Castri existant et qui hospicia propria habeant, in dicto Castro possint habitare in eodem dum tamen eos non recognoveritis fere suspectos.»
Di questo provvedimento beneficiò anche e soprattutto il canonico di origine pisana Saladino Pisanello, cui nel frattempo era già stata sottratta l’abitazione a vantaggio dell’apotecario Guillem Camallera. Re Alfonso dava infatti disposizioni affinchè l’ordinanza di sequestro fosse sospesa e fosse trovato un altro alloggio per il Camallera.
Nonostante le sue origini pisane Saladino seppe evidentemente guadagnarsi la fiducia e la stima dell’arcivescovo che affiancò prima da canonico di Cagliari e poi come vescovo di Dolia nella politica di salvaguardia dei diritti della chiesa contro gli abusi perpetrati dai feudatari e dai funzionari regi. È addirittura ipotizzabile che il citato provvedimento a vantaggio dei canonici di origine pisana ancora residenti in Castello, fosse stato espressamente richiesto da Gondissalvo, aragonese di nascita, per il fido Saladino, persona estranea agli ambienti di corte e alla nobiltà feudale e pertanto estremamente utile alla sua azione di recupero di diritti e beni spettanti alla mensa arcivescovile.
Allo stesso modo nella diocesi di Dolia villaggi e terre di antica donazione giudicale, con il loro patrimonio di servi e ancelle, risultavano aggrediti dalla protervia di heretats e ufficiali regi, contro cui il predecessore di Saladino si adoperò a tal punto da rischiare – come vedremo – la propria incolumità.
4. Il burrascoso episcopato di Francesco di Dolia (1326-1334)
Una lettera di istruzioni spedita da Giacomo II d’Aragona al cavaliere Bernat de Boxados, suo nunzio e procuratore presso la curia pontificia, ci fornisce l’elenco delle sedi vescovili vacanti in Sardegna alla data del 12 maggio 1325. Tra le chiese sprovviste di pastore, accanto a Torres, Sorres, Ploaghe e Bisarcio, figura anche Dolia per la quale al sovrano premeva l’elezione di fra Pere de Deu, monaco cistercense del monastero di Santes Creus a Barcellona o, in alternativa, del proprio cappellano Bonanat d’Almanar.
Papa Giovanni XXII non dovette accettare l’intromissione del monarca se nel giugno del 1326 risulta ricoprire la sede doliense un Francesco del quale l’infante Alfonso raccomandava ai funzionari regi la protezione. Aveva pertanto colto nel giusto il canonico Serra ipotizzando, sulla base di una più tarda attestazione del 1334, che questo Francesco, ignorato da Eubel, fosse stato eletto al posto dei non graditi candidati di Giacomo II.
Da documenti inediti rinvenuti nei registri di cancelleria dell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, emerge che i primi anni del suo episcopato furono caratterizzati da aspri contrasti col mondo feudale e in particolare col cavaliere catalano Guillem Des-llor. Fu questi un influente personaggio della cerchia dell’infante Alfonso, nominato nell’ottobre 1324 capitano del castello e villa di Bonaria, e che successivamente, coinvolto negli scontri tra Berenguer Carroç e Ramon de Peralta, era stato messo sotto inchiesta e costretto ad un temporaneo rientro in patria. Tra i feudi concessi al Des-llor vi era la villa di «Barrala (attuale Barrali N.d.R.) sita in curatoria de Bonavoylla» nel cui territorio insisteva un salto, dotato di case, servi e ancelle, rivendicato dal vescovo Francesco come possesso, da tempo immemore, della chiesa di Dolia. Il cavaliere catalano, dopo aver occupato il salto oggetto della contesa, giunse a minacciare il vescovo e i suoi familiari inviando uomini a cavallo armati nella villa di Dolia. Di ulteriori contrasti con non meglio identificati feudatari che occupavano abusivamente terre della diocesi si fa menzione in un documento di alcuni mesi posteriore ove l’infante Alfonso riferisce anche della denuncia presentatagli dal presule riguardo al fatto che ai sacerdoti del distretto episcopale era impedito di adempiere alla estreme volontà dei testatori in merito al luogo di sepoltura prescelto e ai lasciti a favore della chiesa.
L’episcopato di Francesco si protrasse con certezza fino all’avvento dell’arcivescovo Gondissalvo (1331-1341), anch’egli impegnato in prima linea nella salvaguardia dei beni della sua chiesa contro gli abusi perpetrati dai feudatari e dai funzionari regi. Una pergamena del 1334, tra le più antiche sopravvivenze dell’Archivio Capitolare di Cagliari, ricorda infatti il «reverendus pater in Christo dominus Ffranciscus Doliensis episcopus» tra i testimoni di un atto nel quale detto arcivescovo concedeva ad alcuni ecclesiastici la facoltà di poter disporre per testamento di una quota parte dei propri beni.
Questa fonte parrebbe contraddetta da un’altra secondo cui, nel dicembre 1332, sul seggio vescovile di Dolia sedeva un Pietro, come si legge in una richiesta inoltrata dal re Alfonso IV d’Aragona a tutti i vescovi della Sardegna per ottenere aiuti finanziari nella guerra contro i genovesi e i mori di Granada. Tra i destinatari della missiva vi è in effetti «P(etr)o, divina providencia Doliensi episcopo», ma si tratta di un evidente errore da parte della cancelleria aragonese in quanto non sussistono dubbi sul dato cronologico offerto dalla pergamena cagliaritana che attesta il nostro vescovo Francesco ancora in attività in un mese e giorno imprecisabili del 1334.
5. Saladino: un episcopato ventennale (1335-1355)
In mancanza della bolla di nomina, la più antica attestazione del suo episcopato risale al 30 novembre 1335, quando Alfonso IV d’Aragona intimò a Bernat de Boxados, suo consigliere e riformatore di Sardegna, di salvaguardare i diritti di Saladino, vescovo doliense, contro le pretese degli amministratori generali che intendevano costringere alcuni terrales ab equo della sua villa di Dolia a indebite prestazioni militari. Lo ritroviamo poi a distanza di tre anni perorare presso il nuovo re Pietro IV la causa di Clement de Salavert, feudatario di Ussana e altre ville contermini, che intendeva costruire un ponte sul Rio Mannu rifacendosi delle spese sostenute con l’incasso dei pedaggi.
Nel febbraio 1341, morto l’arcivescovo di Cagliari Gondissalvo, il capitolo si riunì e tutti i canonici si trovarono unanimemente concordi a proporre per successore proprio Saladino vescovo di Dolia, ma Benedetto XII gli preferì Gugliemo, monaco cistercense del monastero di Poblet, diocesi di Tarragona. È probabile che in questa scelta del pontefice abbiano influito ragioni di opportunità politica – considerate le origini pisane del presule doliense – ma ancor più la volontà di mettersi definitivamente alle spalle i gravi litigi e conflitti con la Corona e i consiglieri di Cagliari che avevano caratterizzato l’episcopato di Gondissalvo, del quale Saladino si presentava come il naturale continuatore.
Dopo alcuni mesi ecco ancora Saladino, assieme all’arcipresbitero di Dolia Bernardus Pererii e al parroco della villa di Dei Arnau Martí, comparire nei registri delle decime ecclesiastiche da versare alla Camera Apostolica; ugualmente agli inizi del 1342.
La documentazione dell’Archivio della Corona d’Aragona riprende nell’ottobre 1344 con una lettera inviata da Pietro IV a Guillem de Cervelló, governatore e riformatore generale del regno di Sardegna e Corsica. Il sovrano, ricevute le proteste del vescovo di Dolia (non nominato ma senz’altro Saladino), ingiunse all’ufficiale di desistere dal richiedere prestazioni e servizi per la villa di Dolia che il prelato e i suoi predecessori, da quasi ottanta anni, possedevano pacificamente a giusto titolo, franca di ogni tributo, per lascito testamentario di Guglielmo conte di Capraia, giudice d’Arborea e signore della terza parte del regno di Cagliari. In aggiunta ai contrasti con i funzionari regi per la sede episcopale, non mancarono a Saladino occasioni di scontro con i feudatari dei territori limitrofi e in special modo coi fratelli Tomàs e Ramonet Marquet, figli ed eredi del barcellonese Tomàs Marquet. Come emerge da una lettera inviata da Pietro IV all’amministratore Arnau de Torrent nel dicembre del 1345, motivo del contendere erano alcune case e appezzamenti di terra, a detta di Saladino di proprietà del vescovado, situati nei limiti di non specificate ville infeudate ai Marquet che, dal canto loro, rivendicavano il pieno possesso di detti beni. In mancanza di un accordo, le parti decisero di affidarsi all’arbitrato di Sebastiano, arcivescovo di Cagliari, e Guillem de Cervelló, governatore generale del regno di Sardegna, i quali riconobbero i diritti del presule doliense. I Marquet si opposero però al pronunciamento adducendo una curiosa motivazione: il vescovo Saladino, l’arcivescovo Sebastiano e Tomàs o ambo i fratelli, sarebbero stati legati tra loro da vincolo di scomunica e pertanto la sentenza arbitrale non poteva essere ritenuta valida. Palesata in seguito la pretestuosità del ricorso, Saladino chiese non solo la restituzione dei beni usurpati ma anche l’applicazione a suo vantaggio della pena pecuniaria prevista per gli inadempienti alle sentenze arbitrali.
Le tensioni col mondo feudale, tuttavia, non si placarono se nel 1347, dietro denuncia del vescovo Saladino, fu ordinato al governatore generale di impedire che i feudatari esigessero dagli agricoltori della diocesi di Dolia proprietari di gioghi i quattro starelli di frumento spettanti invece, per antica consuetudine, ai rettori delle varie parrocchie a titolo di diritto ecclesiastico.
Dopo un vuoto di alcuni anni le attestazioni su Saladino nell’Archivio della Corona d’Aragona riprendono nel 1353. Nel giugno di quell’anno Pietro IV comunicò ai suoi ufficiali del regno di Sardegna e Corsica che Giovanni, arcivescovo di Cagliari nonché nunzio apostolico e collettore pontificio, visto il protrarsi della sua assenza dall’isola aveva nominato suoi sostituti per la riscossione delle decime i subcollettori Saladino, vescovo di Dolia, e Domenico de Turribus, canonico di Cagliari.
Nell’ottobre del 1353 il vescovo Saladino depose come testimone d’accusa nell’ambito del processo istruito dall’ammiraglio Bernat de Cabrera contro Mariano IV giudice d’Arborea, reo di aver rotto il rapporto di vassallaggio col re Pietro IV, ponendosi a capo di una vera e propria rivolta culminata nell’assedio del Castello di Cagliari. La deposizione di Saladino è nota in letteratura soprattutto per la descrizione delle due distinte insegne araldiche documentate nel regno di Arborea alla metà del secolo XIV, ma anche per le motivazioni addotte circa le cause che portarono allo scontro tra Mariano IV d’Arborea e Pietro IV d’Aragona. Il presule dichiarò di essere stato di persona nell’accampamento dei rivoltosi presso Quartu per far liberare tale Gormario, un tempo suo domestico, che, catturato, era lì detenuto come prigioniero. In detto accampamento giurò di aver visto Pietro de Atzeni e Cino de Zori che si atteggiavano apertamente a capitani per conto del giudice d’Arborea, con ai loro ordini una schiera di sardi provenienti tanto dall’Arborea che dal Cagliaritano. Affermò inoltre che l’esercito degli insorti tenne diversi giorni sotto assedio il Castello di Cagliari per poi ritirarsi sconfitto presso la villa di Sanluri, dove si radunò con altre genti del giudice arborense per un totale di circa 600 cavalieri e 10.000 fanti. Interrogato se nell’accampamento di Quartu avesse notato qualche vessillo, Saladino rispose di no, precisando tuttavia che i partigiani di Mariano IV erano soliti ostentare due tipi di insegne: una con un albero verde in campo bianco, che era l’antica arma del regno d’Arborea, e un’altra col medesimo soggetto associato ai pali d’Aragona, vale a dire lo stemma proprio della famiglia giudicale. In merito poi alle ribellioni della villa di Alghero e del castello di Monteleone riferì di aver inteso da più parti che dietro tali atti vi erano il giudice d’Arborea e Matteo Doria. Interrogato infine se fosse a conoscenza di eventuali danni arrecati a persone e beni dei catalani da parte dei rivoltosi accampati a Quartu, rispose che erano di pubblico dominio le notizie della cattura del conte di Donoratico, feudatario del signor re, e dell’uccisione dell’arcivescovo di Cagliari, sbarcato a Capo Carbonara di ritorno dalla Catalogna. La deposizione del vescovo di Dolia si chiuse con la risposta alla domanda se fosse a conoscenza dei motivi e delle finalità che spinsero il giudice d’Arborea a porre sotto assedio il Castello di Cagliari: Saladino riferì quanto i capitani dei ribelli gli dissero nel campo di Quartu, e cioè che i catalani volevano privare Mariano del suo regno e pertanto il giudice mosse guerra contro di loro per meglio potersi difendere.
È estremamente significativo che in una lettera di poco posteriore il giudice arborense, cercando di discolparsi dalle infamanti accuse mossegli da Bernat de Cabrera, preannunciasse al re d’Aragona l’invio presso la sua corte proprio del vescovo di Dolia (non nominato ma Saladino), assieme al giurisperito Nicola de Ripafracta ed altri emissari, per informarlo delle sue intenzioni e per fare delle trattative, segno che il legame particolare col vescovado istituitosi dai tempi di Guglielmo di Capraia non si era ancora sciolto.
Il vescovo di Dolia, non espressamente nominato ma sempre Saladino, si ritrova poi in un documento del marzo 1354 proveniente dalla curia pontificia di Avignone dove papa Innocenzo VI invitò l’arcivescovo di Cagliari e ai suoi suffraganei a pronunciarsi sull’opportunità di trasferire la sede del vescovado di Sulci da Tratalias, dove si trovava dal secolo XI a causa delle scorrerie musulmane, a Villa di Chiesa.
Quando, alla fine di gennaio del 1355, il re Pietro IV volle dare avvio alla prima esperienza parlamentare del Regnum Sardiniae et Corsicae, fece partire da Cagliari una serie di lettere convocatorie che fissavano la data di inizio delle riunioni per il 15 febbraio. Scorrendo l’elenco dei convocati per il Braccio Ecclesiastico troviamo anche l’invito al «venerabili in Christo patri Seladino, divina providencia episcopo Doliensi». Egli tuttavia non presenziò mai ai lavori perché nel frattempo morì (obiit), come ebbe modo di annotare un anonimo scrivano a margine del verbale delle Corti, stilato fra il febbraio e il marzo dello stesso anno.
L’episcopato di Saladino si è protratto dunque per almeno un ventennio. Dopo la sua morte la diocesi andò incontro ad un periodo di vacanza perché il successore Giovanni, aragonese, per alcuni problemi che si verificarono all’atto della sua elezione potè insediarsi solo a partire dall’ottobre 1355.
 
 
 
 
 


[1] estratto da: Antonio FORCI, L'episcopato di Saladinus Doliensis nella Sardegna regnicola del secolo XIV (1335-1355), in RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, n. 12, giugno 2014, pag. 67-106.
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