di Antonio Forci
La diocesi di Dolia,
alias Bonavoyla o Bonavolla, con chiesa cattedrale intitolata a San Pantaleone martire
nella villa di Dolia o San Pantaleo, attuale paese di Dolianova (Cagliari), fu
istituita dopo l’anno 1073 – durante il regno del giudice Orzocco-Torchitorio
(1058-1081) – come suffraganea dell’arcidiocesi di Cagliari, con giurisdizione
ecclesiastica sui territori delle curatorìe di Dolia o Parteolla, Galilla o
Gerrei, Siurgus e Trexenta, oltre che sulla villa di Nuracato appartenente alla
curatorìa di Campidano. Fu soppressa per volontà di papa Giulio II e unita a Cagliari
nel 1503.
Dopo la presa di
Santa Igia da parte del Comune pisano e della consorteria di nobili toscani ad
esso legata (1257/58), il distretto episcopale ricadde interamente in quella
terza parte del disciolto regno giudicale di Cagliari che per quasi un
cinquantennio passò sotto il controllo del giudice di Arborea.
Fu questo un periodo
di pace e relativa prosperità per la diocesi, che segnò profondamente i suoi
destini, determinando un legame privilegiato con i regnanti d’Arborea sotto i
quali, tra il 1260 circa e il 1288, furono ripresi e ultimati i lavori relativi
alla fabbrica della cattedrale o meglio alla sua «ricostruzione in forme pisane
di accento gotico» giunte sino a noi.
I termini cronologici
di quest’ultima fase edilizia sono dati da tre epigrafi: due, scolpite in
corrispondenza del portale a nord-est, ricordano il dominus P(etrus) de Cili,
vescovo nel 1261, la terza, dipinta all’interno nel catino absidale, celebra il
giorno della consacrazione avvenuta l’8 dicembre 1288, alla presenza di Mariano
II de Bas-Serra, giudice d’Arborea e signore della terza parte del Cagliaritano.
Evidentemente il
sovrano aveva provveduto in prima persona a portare a compimento la costruzione
della cattedrale, tanto da rendere plausibile l’ipotesi che sia lui la figura
regale scolpita in alto rilievo a destra del portale nord-orientale. Tuttavia, considerati
i nuovi dati emersi dall’indagine, non è inverosimile che l’effigie ritragga il
predecessore Guglielmo di Capraia il quale, morendo nel 1264, aveva lasciato al
vescovado di Dolia la villa eponima, con tutti i suoi diritti e pertinenze, dopo
aver con ogni probabilità finanziato il riavvio dei lavori nella chiesa cattedrale.
Tale legato testamentario era stato rispettato, apparentemente senza contrasti,
sia dal Comune di Pisa che dal re d’Aragona, essendo ben noto il passo del Componiment catalano-aragonese del 1358,
esemplato dalla VI Composizione pisana del 1320-22, ove si legge:
Lo
dit bisba [de Bonavoyla] ha e posseex la villa de Dolia en altra manera appallada
de Bonavoyla per ço con los homens de la dita villa son servos propis del bisbat de Bonavoyla. En
temps del pisa no eren tenguts de paguar al Comun piza alcuna cosa salvant que
en la justicia de la sanch ho en altra maquitia ho actes ten solament e posar
aqui maiors e altres oficials per lo dit Comun e quant sa feya naguna ost lo bisba era tengut de donar al dit
Comun de Pisa IIII homens a cavall en serviy de la dita ost e del dit Comun.
Fu proprio il vescovo
doliense Saladino, di cui andremo a trattare, a farsi forte di questo lascito
presso il re Pietro IV affinchè gli ufficiali regi desistessero dall’angariarlo
con indebite richieste di prestazioni e servizi; fu lui, nella prima turbolenta
fase della guerra sardo-catalana, a entrare e uscire incolume dall’accampamento
dei rivoltosi presso Quartu quando, contemporaneamente, l’arcivescovo di Cagliari
era trucidato a Capo Carbonara dagli stessi ribelli; fu lui, poco tempo dopo,
ad essere inviato alla corte del re d’Aragona come ambasciatore di Mariano IV
che intendeva discolparsi dall’accusa di fellonia mossagli dall’ammiraglio
Bernat de Cabrera; fu lui, teste nel processo istruito contro lo stesso Mariano,
a fornire un’accurata distinzione fra le insegne proprie della Casa d’Arborea e
quelle personali del giudice; fu ancora lui, infine, interrogato sui motivi che
spinsero Mariano IV alla ribellione, a dare una spiegazione che non ha mancato
di sollevare l’interesse degli storici per distinguersi dal tono tendenziosamente
fazioso e poco obiettivo che in genere contraddistingue le testimonianze dei Procesos: «(…) iudex Arboree hoc idem
fieri faciebat quia domini Cathalani volebant eum privare regno suo quod tenet,
propter quod ideo iudex impugnat taliter Cathalanos ut melius se possit
defendere ab eisdem.»
Ce n’è dunque
abbastanza perché il personaggio, portatore oltretutto di un nome singolare,
attirasse su di sé l’attenzione dello scrivente: Saladinus episcopus Doliensis, chi era costui?
2. Il nome
Questo
prelato si distingue nel vastissimo panorama dei vescovi medievali dell’Orbis Christianus
per il suo nome di chiara matrice araba, derivato dalla latinizzazione
dell’epiteto onorifico Salāh ad-dīn (“l’integrità della religione”), laqab del celebre sultano curdo Yūsuf
ibn Ayyūb, più noto in Occidente come Saladino. Assoggettati Egitto e Siria,
ristabilita l’osservanza sunnita in tutto il Vicino Oriente e riconquistata
all’Islam Gerusalemme nel 1187, detto sultano si quadagnò in Europa, a dispetto
della ferocia con cui è dipinto da certa iconografia, una straordinaria fama di
uomo colto, saggio e avveduto, divenendo l’eroe della magnanimità cavalleresca
e dello spirito di tolleranza tra cultura islamica e cristiana. Non desta
quindi meraviglia la diffusione dell’antroponimo Saladino in Italia, specie nei
livelli più altri della società, con attestazioni che spaziano dalla Dalmazia
alla Sicilia fin dal secolo XII. Nel medesimo areale geografico il nome del
sultano è assurto perfino a cognome di illustri casati a partire da un
originario patronimico, senza considerare che Saladino, oltre che nome di
battesimo o cognome, poteva anche essere un nomen
iocosum, un nomignolo cioè derivato dal ricordo del cavalleresco sultano e
delle sue leggendarie imprese presso i popoli occidentali. In alcuni casi è tuttavia verosimile che tale cognome
rappresentasse il ricordo dell’effettiva partecipazione alle Crociate di
qualche membro del lignaggio o meglio della libertà restituita dal sultano a
molti cavalieri cristiani caduti nelle sue mani dopo il riscatto pagato dal
papa Lucio III. Questi gentiluomini, apprezzando la lealtà, peraltro già nota,
del sultano, vollero commemorare l’avvenimento col prendere il suo nome; così
tra la nobiltà francese, spagnola, germanica e principalmente italiana, si
trovano varie famiglie con lo stesso cognome Saladini.
Ad esempio a Zara, nei secoli XIII e XIV, è nota la nobile
famiglia dei Saladini, un cui membro, Saladino Saladini, ebbe parte attiva
nella cacciata dei veneziani dalla città dalmata nel 1311.
In
Veneto, regione storicamente proiettata verso l’Oriente mediterraneo, si segnala il frate benedettino Saladino Dandolo, della
nobilissima famiglia dogale dei Dandolo, che fu abate del monastero di San
Giorgio Maggiore di Venezia dal 1294 al 1318, mentre un’altra famiglia del
patriziato urbano, i Premarin o Premarino, vanta tra i suoi esponenti un Saladinus che fu, nel 1318, capitano della
Riviera dell’Istria e commissario della repubblica di Venezia nella città di Pola;
abitava a Bologna nel 1378 un Saladinus
quondam Petri de Verona.
Un Saladino in stretti rapporti con la più alta nobiltà locale è
poi attestato in Trentino a partire dal 1207, ripetutamente menzionato negli anni
seguenti come gastaldo del vescovo di Trento a Malé, in una serie di
provvedimenti del visdomino Pietro di Malosco.
In Liguria, una delle regioni più direttamente a contatto con
l’Oriente islamico per via delle sue città marinare, varie attestazioni di
questo nome sono note sin dai primi anni del Duecento: un Saladinus de Portu Mauricio compare nel 1203, un Petrus Saladinus è ricordato a Savona
nel 1204, un Saladinus filius naturalis
quondam Begini, burgense di Vernazza, è citato nel 1216, un Saladino, un Valens Saladinus, un Pasquale Saladino
da Bavari, un Saladinus de Sauro e un Saladinus
Caravellus sono documentati a Genova rispettivamente nel 1222, nel 1225,
nel 1226, nel 1267 e nel 1338; abbiamo ancora un Saladinus de Rapallo nel 1251
e un Saladinus quondam domini Opecini de Trebiano nel 1285. In Lunigiana
il nome si riscontra nella genealogia dei nobili di Fosdinovo (Massa e Carrara)
già dal secondo decennio del secolo XIII, essendo noto in letteratura un «Saladinus
quondam domini Saladini» nel 1268; un
«Saladinus de Merzaxio de Lurexana», mercante, è attestato nel 1251; nel 1259
il monastero di San Venerio al Tino, isoletta nel golfo di La Spezia, annovera
tra i suoi frati un Saladino, converso. Non si può poi non ricordare il Salado o Saladino Doria, vissuto
a cavallo dei secoli XIII e XIV, membro della nobilissima famiglia di origine genovese
dei Doria che tanta parte ebbe nelle vicende della Sardegna nel corso del medioevo.
A
Serravalle Scrivia (Alessandria), alle pendici dell’Appennino ligure, è documentato
un «Saladinus quondam Citelli, consiliarius de Serravalle» nella seconda metà
del secolo XIII.
Nella
Lombardia meridionale un Saladinus de
Capharis è tra i mantovani che nel 1216 sottoscrissero il trattato di pace
con Ferrara.
In Emilia
e Romagna l’antroponimo deve essere penetrato abbastanza precocemente se già
nel 1210 è documentato nella genealogia della famiglia Baratti, una delle più
antiche e nobili della città. A titolo di esempio, citiamo inoltre un Saladinus Antinelli da Imola nel 1254,
un Saladinus presbitero «ecclesie S.
Mathei (…) de plebatu S. Crucis» (diocesi
di Forlì) ricordato nei registri delle decime dell’anno 1290, e il nobile
Saladino degli Onesti di Ravenna vissuto nel secolo XIII; nel 1385 si ricorda
infine un Saladinus de Puntirolis da
Forlì tra i protagonisti della
congiura contro Sinibaldo Ordelaffi.
Per le varie attestazioni della Toscana ci limitiamo, per ovvie
ragioni di brevità, a segnalare la nobile famiglia Saladini dei conti d’Agnano Castello
di Volterra (Pisa) con cui era imparentato il nobile Ugo dei Saladini, poi
santificato, vescovo della città dal 1171 al 1184; alla medesima stirpe
apparteneva verosimilmente il Saladinus
de Orciatico detentore di beni e diritti, nel 1212, nei castelli di Agnano
e Orciatico, mentre un Iacopo di Saladino
Saladini è menzionato nell’ambito delle trattative di pace tra Pisa e
Volterra nel 1270. A Pisa – probabile patria del nostro – l’attestazione più
antica riguarda tale Tunctarellus Saladinus
citato tra i mille cittadini che nel 1188 furono chiamati a sottoscrivere e
giurare la pace con Genova; in un’altra importante fonte onomastica del 1228,
due Saladinus, un Saladinus Uguiccionis e un Ranerius Saladini figurano fra i 4300 pisani
che giurano di mantenere l’alleanza stipulata con Siena, Pistoia e Poggibonsi. A
Siena, tra le migliaia di antroponimi ricavabili dallo spoglio dei più antichi
fondi pergamenacei dell’Archivio di Stato, emergono un Saladino giudice nel
1213, un Saladino giudice e notaio nel 1213-1214, un Saladinus Acti de Lunisiana nel 1230, un altro Saladino giudice nel
1247 e un Saladino del fu Ugolino, speziale, nel 1249; si ricordo poi, da altre
fonti, un Saladinus Bonaguide, dominus dogane nel 1231. A Lucca, stando
a quanto riportato in letteratura, avrebbe risieduto da tempi remoti una
famiglia Saladini che occupò un rango distinto tra la nobiltà d’estrazione,
mentre un Saladinus filius Ugolinelli regitoris de Ficecchio risulta
nel 1302. Nella Garfagnana lucchese, l’antroponimo è attestato nel 1261 tra i
nobili Gherardinghi, signori del castello delle Verrucole, con un Saladinus quondam domini Ghiberti de Verucola Gherardingorum sindicus comunis et
universitatis nobilium et consortum Gherardingorum de Garfagnana. A
Grosseto un Saladino di Nardo è testimone di un atto notarile del 1324. A
Pescia un Saladinus Brinelli figura tra
i capi dei Ghibellini che nel 1339 ripararono a Lucca per sottrarsi alla
signoria della città di Firenze. Infine nel 1231, un Saladinus filius Baroncelli figura tra gli homines et personas de Plebe Vetere (Valdisieve) che giurano
fedeltà al vescovo di Firenze.
Per il Lazio sono noti il mercante Saladinus de Civitate Veteri (Civitavecchia, Roma) nel 1252, il
notaio Petrus Iohannis Saladini de
Sermineto (Sermoneta, Latina) a
partire dal 1305, un Massaruccius
Saladini console del comune di Montalto nel 1307; a Sezze (Latina) sono
documentati, nella prima metà del secolo XIV, un Petrus Saladinus camerario del comune, un Andreas Nicolai Saladini consigliere dello stesso comune e un Leonardus Saladinus, pedes.
Se in Campania i
registri della cancelleria angiona registrano, nel 1275, un Saladinus de Neapoli, nelle
Marche gode di una certa notorietà l’antica e nobile famiglia dei Saladini, una
delle più illustri casate patrizie che dal 1300 in poi ebbero parte attiva
nella vita di Ascoli Piceno; la chiesa ascolana venera inoltre un Saladino fondatore degli eremiti
benedettini – un piccolissimo movimento pauperistico di eremiti delle grotte
approvati da Gregorio IX nel 1234 – beatificato a nome di popolo dopo una vita
di solitudine trascorsa nell’eremo di S. Angelo di Voltorino.
Infine in
Sicilia si segnala, nella seconda metà del secolo XIII, un Iacobus Saladinus de Messana, membro di
una facoltosa famiglia messinese che portava il cognome Saladino, oltre ad un Saladinus de Sergio, giudice regio di
Palermo, attivo nella prima metà del secolo XIV.
In
Sardegna le occorrenze del nome Saladino sono prevalentemente e significativamente
concentrate nel Castello di Cagliari in epoca pisana, a partire dalla seconda
metà inoltrata del secolo XIII: nel 1280 un Matteo Manuelis, figlio di Saladino
Manuelis, è patrono della nave S. Antonio Kalarensis
che trasporta a Genova un carico di merci varie (pelli, cuoi, lana, panni,
grano, orzo, formaggio) imbarcato da alcuni mercanti nel porto di Arborea e
diretto originariamente a Porto Pisano. Le pergamene del fondo Alliata
nell’Archivio di Stato di Pisa citano, nel 1294, un «Saladinus filius condam
Marignani Buctafave», in età pupillare; un «magister Gaddinus phisicus condam
Saladini, burgensis Castelli Castri» nel 1321; una «domus heredum Saladini
Marignani», confinante con un
appezzamento di terra sito «in Castello Castri, in ruga inferiori marinariorum»,
è citata nel 1322; la stessa proprietà appare in un atto di poco posteriore
come «terra et domus que fuit Saladini de Marignani in Castello Castri, in ruga
marinariorum». Nell’agosto del 1326, all’indomani della seconda pace tra Pisa e
Aragona, un Saladinus vinarius è attestato
tra i pisani che ancora dimoravano nel Castello di Cagliari in ruga mercatorum. Al di fuori del
capoluogo isolano è da rammentare il Saladinus
de Mela Sardus che compare come teste di un atto notarile rogato a
Bonifacio, in Corsica, nel 1290, il Saladino Doria, omonimo del citato nobile, «rector
ecclesie de Totoroque Sorrane diocesis», nel 1341 e infine il «Saladinus rector
ecclesie de Uta», ancora nel 1341, entrambi impegnati a versare le decime alla
curia pontificia.
In
questo quadro generale estremamente parziale, solo indicativo dell’ampia
diffusione dell’antroponimo Saladino, emerge comunque il dato offerto dalla
Toscana e la contemporanea attestazione tra i pisani del Castello di Cagliari
tra l’ultimo quarto del secolo XIII e il primo del successivo, ciò che
costituisce un primo importante indizio circa la provenienza del nostro prelato.
3. Le supposte origini pisane
Su
Saladino episcopus Doliensis
null’altro sapevamo fino ad oggi se non che occupava il seggio vescovile di
Dolia nel 1341, che depose come teste nei famosi Procesos contro gli Arborea e che morì nel 1355 alla vigilia del
primo parlamento sardo indetto dal re Pietro IV. Nessuno si è mai preoccupato di
appurare la sua nazionalità, pur essendo evidente come il nome riportasse ad
un’origine estranea rispetto ai regni della Corona d’Aragona.
Documenti
inediti tratti dai registri di cancelleria dell’Archivio della Corona d’Aragona
hanno apportato su di lui nuovi significativi dati che permettono, tra l’altro,
di meglio precisare i termini cronologici del suo episcopato e di proporne
l’identificazione col canonico della cattedrale di Cagliari Saladino Pisanello,
pisano, qualificato come pullinus e
possessore di una casa in Castello in
vico mercatorum nel 1334. È pertanto più che probabile che il nostro
vescovo appartenesse alla schiera di quei pisani nati e cresciuti nel castello
di Cagliari e ivi stabilmente residenti da burgenses,
termine quest’ultimo reso nelle fonti catalane con polins, latinizzato in pullini,
rampolli. Dopo la prima pace tra Pisa
e Aragona questi pullini si erano
resi protagonisti di una sfortunata congiura nell’intento di consegnare il
Castello di Cagliari al re Giacomo II; scoperti, quaranta dei migliori erano
stati costretti alla fuga, due furono giustiziati dai castellani pisani.
Esisteva quindi tra i pisani nativi del Castello un forte partito
filo-aragonese nelle cui fila avrebbe potuto militare il citato Saladinus vinarius, proprietario di un
immobile in ruga mercatorum, per il
quale non è da escludere uno stretto legame di parentela col nostro canonico e futuro
vescovo di Dolia.
Questi
pullini continuarono ancora per qualcue
tempo a dimorare in Castello, da cui tuttavia furono alla fine cacciati come
sospetti, con l’eccezione dei soli canonici: è infatti del 1334 la regia
provisione con cui Alfonso IV d’Aragona, dietro supplica dell’arcivescovo di
Cagliari Gondissalvo, acconsentì a che i canonici della chiesa cagliaritana i
quali si trovavano nella condizioni di “pullini”, potessero continuare a
risiedere nel Castello di Cagliari nelle case di loro proprietà, ordinando al
governatore generale Ramon de Cardona: «(…) quod omnes canonici dicte ecclesie
qui pullini dicti Castri existant et qui hospicia propria habeant, in dicto
Castro possint habitare in eodem dum tamen eos non recognoveritis fere suspectos.»
Di questo provvedimento beneficiò anche e soprattutto il
canonico di origine pisana Saladino Pisanello, cui nel frattempo era già stata
sottratta l’abitazione a vantaggio dell’apotecario Guillem Camallera. Re
Alfonso dava infatti disposizioni affinchè l’ordinanza di sequestro fosse
sospesa e fosse trovato un altro alloggio per il Camallera.
Nonostante
le sue origini pisane Saladino seppe evidentemente guadagnarsi la fiducia e la
stima dell’arcivescovo che affiancò prima da canonico di Cagliari e poi come
vescovo di Dolia nella politica di salvaguardia dei diritti della chiesa contro
gli abusi perpetrati dai feudatari e dai funzionari regi. È addirittura ipotizzabile
che il citato provvedimento a vantaggio dei canonici di origine pisana ancora
residenti in Castello, fosse stato espressamente richiesto da Gondissalvo,
aragonese di nascita, per il fido Saladino, persona estranea agli ambienti di
corte e alla nobiltà feudale e pertanto estremamente utile alla sua azione di
recupero di diritti e beni spettanti alla mensa arcivescovile.
Allo
stesso modo nella diocesi di Dolia villaggi e terre di antica donazione
giudicale, con il loro patrimonio di servi e ancelle, risultavano aggrediti
dalla protervia di heretats e
ufficiali regi, contro cui il predecessore di Saladino si adoperò a tal punto
da rischiare – come vedremo – la propria incolumità.
4.
Il burrascoso episcopato di Francesco di Dolia (1326-1334)
Una
lettera di istruzioni spedita da Giacomo II d’Aragona al cavaliere Bernat de
Boxados, suo nunzio e procuratore presso la curia pontificia, ci fornisce
l’elenco delle sedi vescovili vacanti in Sardegna alla data del 12 maggio 1325.
Tra le chiese sprovviste di pastore, accanto a Torres, Sorres, Ploaghe e
Bisarcio, figura anche Dolia per la quale al sovrano premeva l’elezione di fra
Pere de Deu, monaco cistercense del monastero di Santes Creus a Barcellona o,
in alternativa, del proprio cappellano Bonanat d’Almanar.
Papa Giovanni XXII non dovette accettare l’intromissione del
monarca se nel giugno del 1326 risulta ricoprire la sede doliense un Francesco
del quale l’infante Alfonso raccomandava ai funzionari regi la protezione. Aveva pertanto colto nel giusto il canonico Serra
ipotizzando, sulla base di una più tarda attestazione del 1334, che questo
Francesco, ignorato da Eubel, fosse stato eletto al posto dei non graditi
candidati di Giacomo II.
Da documenti inediti rinvenuti nei registri di cancelleria
dell’Archivio della Corona d’Aragona di Barcellona, emerge che i primi anni del
suo episcopato furono caratterizzati da aspri contrasti col mondo feudale e in
particolare col cavaliere catalano Guillem Des-llor. Fu questi un influente
personaggio della cerchia dell’infante Alfonso, nominato nell’ottobre 1324
capitano del castello e villa di Bonaria, e che successivamente, coinvolto
negli scontri tra Berenguer Carroç e Ramon de Peralta, era stato messo sotto
inchiesta e costretto ad un temporaneo rientro in patria. Tra i feudi concessi
al Des-llor vi era la villa di «Barrala (attuale Barrali N.d.R.) sita in curatoria
de Bonavoylla» nel cui territorio insisteva un salto, dotato di case, servi e
ancelle, rivendicato dal vescovo Francesco come possesso, da tempo immemore,
della chiesa di Dolia. Il cavaliere catalano, dopo aver
occupato il salto oggetto della contesa, giunse a minacciare il vescovo e i
suoi familiari inviando uomini a cavallo armati nella villa di Dolia. Di
ulteriori contrasti
con non meglio identificati feudatari che occupavano abusivamente terre della
diocesi si fa menzione in un documento di alcuni mesi posteriore ove l’infante
Alfonso riferisce anche della denuncia presentatagli dal presule riguardo al
fatto che ai sacerdoti del distretto episcopale era impedito di adempiere alla
estreme volontà dei testatori in merito al luogo di sepoltura prescelto e ai
lasciti a favore della chiesa.
L’episcopato di
Francesco si protrasse con certezza fino all’avvento dell’arcivescovo
Gondissalvo (1331-1341), anch’egli impegnato in prima linea nella salvaguardia
dei beni della sua chiesa contro gli abusi perpetrati dai feudatari e dai
funzionari regi. Una pergamena del 1334, tra le più antiche sopravvivenze
dell’Archivio Capitolare di Cagliari, ricorda infatti il «reverendus pater in
Christo dominus Ffranciscus Doliensis episcopus» tra i testimoni di un atto
nel quale detto arcivescovo concedeva ad alcuni ecclesiastici la facoltà di
poter disporre per testamento di una quota parte dei propri beni.
Questa fonte parrebbe
contraddetta da un’altra secondo cui, nel dicembre 1332, sul seggio vescovile
di Dolia sedeva un Pietro, come si legge in una richiesta inoltrata dal re
Alfonso IV d’Aragona a tutti i vescovi della Sardegna per ottenere aiuti
finanziari nella guerra contro i genovesi e i mori di Granada. Tra i
destinatari della missiva vi è in effetti «P(etr)o, divina providencia Doliensi
episcopo», ma si tratta di un evidente errore da parte della cancelleria
aragonese in quanto non sussistono dubbi sul dato cronologico offerto dalla
pergamena cagliaritana che attesta il nostro vescovo Francesco ancora in
attività in un mese e giorno imprecisabili del 1334.
5. Saladino: un episcopato ventennale (1335-1355)
In mancanza della bolla di nomina, la più
antica attestazione del suo episcopato risale al 30 novembre 1335, quando
Alfonso IV d’Aragona intimò a Bernat de Boxados, suo consigliere e riformatore
di Sardegna, di salvaguardare i diritti di Saladino, vescovo doliense, contro
le pretese degli amministratori generali che intendevano costringere alcuni terrales ab equo della sua villa di
Dolia a indebite prestazioni militari. Lo ritroviamo poi a distanza di tre anni
perorare presso il nuovo re Pietro IV la causa di Clement de Salavert,
feudatario di Ussana e altre ville contermini, che intendeva costruire un ponte
sul Rio Mannu rifacendosi delle spese sostenute con l’incasso dei pedaggi.
Nel
febbraio 1341, morto l’arcivescovo di Cagliari Gondissalvo, il capitolo si
riunì e tutti i canonici si trovarono unanimemente concordi a proporre per successore
proprio Saladino vescovo di Dolia, ma Benedetto XII gli preferì Gugliemo,
monaco cistercense del monastero di Poblet, diocesi di Tarragona. È probabile
che in questa scelta del pontefice abbiano influito ragioni di opportunità
politica – considerate le origini pisane del presule doliense – ma ancor più la
volontà di mettersi definitivamente alle spalle i gravi litigi e conflitti con
la Corona e i consiglieri di Cagliari che avevano caratterizzato l’episcopato
di Gondissalvo, del quale Saladino si presentava come il naturale continuatore.
Dopo alcuni mesi ecco
ancora Saladino, assieme all’arcipresbitero di Dolia Bernardus Pererii e al parroco della villa di Dei Arnau Martí,
comparire nei registri delle decime ecclesiastiche da versare alla Camera
Apostolica; ugualmente agli inizi del 1342.
La documentazione
dell’Archivio della Corona d’Aragona riprende nell’ottobre 1344 con una lettera
inviata da Pietro IV a Guillem de Cervelló, governatore e riformatore generale
del regno di Sardegna e Corsica. Il sovrano, ricevute le proteste del vescovo
di Dolia (non nominato ma senz’altro Saladino), ingiunse all’ufficiale di
desistere dal richiedere prestazioni e servizi per la villa di Dolia che il
prelato e i suoi predecessori, da quasi ottanta anni, possedevano pacificamente
a giusto titolo, franca di ogni tributo, per lascito testamentario di Guglielmo
conte di Capraia, giudice d’Arborea e signore della terza parte del regno di
Cagliari. In aggiunta ai contrasti con i funzionari regi per la sede
episcopale, non mancarono a Saladino occasioni di scontro con i feudatari dei
territori limitrofi e in special modo coi fratelli Tomàs e Ramonet Marquet,
figli ed eredi del barcellonese Tomàs Marquet. Come emerge da una lettera
inviata da Pietro IV all’amministratore Arnau de Torrent nel dicembre del 1345,
motivo del contendere erano alcune case e appezzamenti di terra, a detta di
Saladino di proprietà del vescovado, situati nei limiti di non specificate
ville infeudate ai Marquet che, dal canto loro, rivendicavano il pieno possesso
di detti beni. In mancanza di un accordo, le parti decisero di affidarsi
all’arbitrato di Sebastiano, arcivescovo di Cagliari, e Guillem de Cervelló,
governatore generale del regno di Sardegna, i quali riconobbero i diritti del
presule doliense. I Marquet si opposero però al pronunciamento adducendo una
curiosa motivazione: il vescovo Saladino, l’arcivescovo Sebastiano e Tomàs o
ambo i fratelli, sarebbero stati legati tra loro da vincolo di scomunica e
pertanto la sentenza arbitrale non poteva essere ritenuta valida. Palesata in
seguito la pretestuosità del ricorso, Saladino chiese non solo la restituzione
dei beni usurpati ma anche l’applicazione a suo vantaggio della pena pecuniaria
prevista per gli inadempienti alle
sentenze arbitrali.
Le tensioni col mondo
feudale, tuttavia, non si placarono se nel 1347, dietro denuncia del vescovo
Saladino, fu ordinato al governatore generale di impedire che i feudatari
esigessero dagli agricoltori della diocesi di Dolia proprietari di gioghi i quattro
starelli di frumento spettanti invece, per antica consuetudine, ai rettori
delle varie parrocchie a titolo di diritto ecclesiastico.
Dopo un vuoto di
alcuni anni le attestazioni su Saladino nell’Archivio della Corona d’Aragona
riprendono nel 1353. Nel giugno di quell’anno Pietro IV comunicò ai suoi
ufficiali del regno di Sardegna e Corsica che Giovanni, arcivescovo di Cagliari
nonché nunzio apostolico e collettore pontificio, visto il protrarsi della sua
assenza dall’isola aveva nominato suoi sostituti per la riscossione delle
decime i subcollettori Saladino, vescovo di Dolia, e Domenico de Turribus, canonico di Cagliari.
Nell’ottobre del 1353
il vescovo Saladino depose come testimone d’accusa nell’ambito del processo
istruito dall’ammiraglio Bernat de Cabrera contro Mariano IV giudice d’Arborea,
reo di aver rotto il rapporto di vassallaggio col re Pietro IV, ponendosi a
capo di una vera e propria rivolta culminata nell’assedio del Castello di
Cagliari. La deposizione di Saladino è nota in letteratura soprattutto per la
descrizione delle due distinte insegne araldiche documentate nel regno di
Arborea alla metà del secolo XIV, ma anche per le motivazioni addotte circa le
cause che portarono allo scontro tra Mariano IV d’Arborea e Pietro IV
d’Aragona. Il presule dichiarò di essere stato di persona nell’accampamento dei
rivoltosi presso Quartu per far liberare tale Gormario, un tempo suo domestico,
che, catturato, era lì detenuto come prigioniero. In detto accampamento giurò
di aver visto Pietro de Atzeni e Cino de Zori che si atteggiavano apertamente a
capitani per conto del giudice d’Arborea, con ai loro ordini una schiera di
sardi provenienti tanto dall’Arborea che dal Cagliaritano. Affermò inoltre che
l’esercito degli insorti tenne diversi giorni sotto assedio il Castello di
Cagliari per poi ritirarsi sconfitto presso la villa di Sanluri, dove si radunò
con altre genti del giudice arborense per un totale di circa 600 cavalieri e
10.000 fanti. Interrogato se nell’accampamento di Quartu avesse notato qualche
vessillo, Saladino rispose di no, precisando tuttavia che i partigiani di Mariano
IV erano soliti ostentare due tipi di insegne: una con un albero verde in campo
bianco, che era l’antica arma del regno d’Arborea, e un’altra col medesimo soggetto
associato ai pali d’Aragona, vale a dire lo stemma proprio della famiglia
giudicale. In merito poi alle ribellioni della villa di Alghero e del castello
di Monteleone riferì di aver inteso da più parti che dietro tali atti vi erano
il giudice d’Arborea e Matteo Doria. Interrogato infine se fosse a conoscenza
di eventuali danni arrecati a persone e beni dei catalani da parte dei
rivoltosi accampati a Quartu, rispose che erano di pubblico dominio le notizie
della cattura del conte di Donoratico, feudatario del signor re, e
dell’uccisione dell’arcivescovo di Cagliari, sbarcato a Capo Carbonara di
ritorno dalla Catalogna. La deposizione del vescovo di Dolia si chiuse con la
risposta alla domanda se fosse a conoscenza dei motivi e delle finalità che
spinsero il giudice d’Arborea a porre sotto assedio il Castello di Cagliari:
Saladino riferì quanto i capitani dei ribelli gli dissero nel campo di Quartu,
e cioè che i catalani volevano privare Mariano del suo regno e pertanto il
giudice mosse guerra contro di loro per meglio potersi difendere.
È
estremamente significativo che in una lettera di poco posteriore il giudice arborense,
cercando di discolparsi dalle infamanti accuse mossegli da Bernat de Cabrera,
preannunciasse al re d’Aragona l’invio presso la sua corte proprio del vescovo
di Dolia (non nominato ma Saladino), assieme al giurisperito Nicola de Ripafracta
ed altri emissari, per informarlo delle sue intenzioni e per fare delle trattative,
segno che il legame particolare col vescovado istituitosi dai tempi di Guglielmo
di Capraia non si era ancora sciolto.
Il vescovo di Dolia,
non espressamente nominato ma sempre Saladino, si ritrova poi in un documento
del marzo 1354 proveniente dalla curia pontificia di Avignone dove papa
Innocenzo VI invitò l’arcivescovo di Cagliari e ai suoi suffraganei a
pronunciarsi sull’opportunità di trasferire la sede del vescovado di Sulci da
Tratalias, dove si trovava dal secolo XI a causa delle scorrerie musulmane, a
Villa di Chiesa.
Quando,
alla fine di gennaio del 1355, il re Pietro IV volle dare avvio alla prima
esperienza parlamentare del Regnum Sardiniae et Corsicae, fece partire da
Cagliari una serie di lettere convocatorie che fissavano la data di inizio
delle riunioni per il 15 febbraio. Scorrendo l’elenco dei convocati per il
Braccio Ecclesiastico troviamo anche l’invito al «venerabili in Christo
patri Seladino, divina providencia episcopo Doliensi». Egli tuttavia non presenziò mai ai lavori perché nel frattempo morì (obiit), come ebbe modo di annotare un
anonimo scrivano a margine del verbale delle Corti, stilato fra il febbraio e
il marzo dello stesso anno.
L’episcopato
di Saladino si è protratto dunque per almeno un ventennio. Dopo la sua morte la
diocesi andò incontro ad un periodo di vacanza perché il successore Giovanni, aragonese,
per alcuni problemi che si verificarono all’atto della sua elezione potè
insediarsi solo a partire dall’ottobre 1355.
[1] estratto da: Antonio
FORCI, L'episcopato di Saladinus Doliensis nella Sardegna regnicola del secolo
XIV (1335-1355), in RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa
Mediterranea, n. 12, giugno 2014, pag. 67-106.
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