giovedì 1 febbraio 2018

Viaggiatori ottocenteschi: descrizione della Trexenta nel viaggio di Carlo Corbetta

Viaggiatori ottocenteschi: descrizione della Trexenta nel viaggio di Carlo Corbetta[1]

“Si continua quindi la via, solcando dolci colline a pascoli naturali, a cespugli, a grano, sui quali si mostrano favorevolmente Ussana e Donori, ove fu recentemente scoperta e messa in coltivazione, da una società francese, una miniera di piombo argentifero, poi Barali e Pimentel, casolari tutti vicini alle sponde del Rio Mannu. Qui sonvi le Grottas de Gianas, tombe scavate nel masso, che alcuni vogliono assegnare ad epoca fenicia, altri a cartaginese, forse invece abitazioni troglodite, adattate poi ad uso di sepolcreti, come se ne trovano altre.

Si entra così nella Trexenta, piccola regione ben coltivata, ove siedono Ortacensus, Guasila, Selegas, Seuni, Gesico, da un lato; San Basilio, Sisini, Seurgus, Donnigala dall'altro, tutti piccoli villaggi, poi Senorbi e Suelli, in mezzo ai quali passa la strada. Il primo di essi con varj nuraghes vicini, ambedue a poca distanza fra loro, contornati da ulivi, mandorli e peri, con case alte solidamente costrutte, tutte differenti da quelle di mota lasciate indietro, con giardini ed orti, dalle cui mura alzano il capo chiomato alcune palme, il che, dà loro aspetto assai pittoresco.

Dopo campi di grano senza un albero, s' incontrano molti terreni incolti, solo coperti da bassa vegetazione naturale, sparsi qua e là, sui luoghi più elevati, di alcuni nuraghes. Ad un certo punto della strada, ci è d'uopo arrestarci per lasciar passare grossi branchi di cavalli, che la ingombrano tutta. Sono piccoli cavalli indomiti, sferrati, cui sono ignote la briglia e la sella, con criniere irte ed incolte code, quasi allo stato selvaggio, tormentati sempre da una qualità speciale di mosche, che, stipate a miriadi, copron loro le parti inferiori e li punzecchiano e succhiano; i quali scendono dal monte al piano per essere impiegati nella battitura del grano. Li conducono due o tre contadini a cavallo con lunghe pertiche, di cui si servono a guisa di pungolo.

Si giunge così finalmente a Mandas, grossa borgata, i cui abitanti si dedicano esclusivamente alla coltivazione dei campi fertili di grano che li circondano; non per questo l'agricoltura può dirvisi avanzata; gli aratri, i carri, gli attrezzi rurali, sono tutti di foggie primitive. Ha case di due ed anche tre piani, abbastanza ben fabbricate con pietra arenaria che si trova nei contorni, e vicina alla quale esiste anche una cava di bel marmo bigio, alquanto somigliante al bardiglio.

Vi abitano varj agiati e relativamente ricchi proprietarj ; ha una chiesa antica di belle proporzioni, qualche negozio discretamente fornito, e perfino un casino di riunione sociale, che io presi per un caffè; ma s' ingannerebbe a partito chi vi cercasse locanda od osteria, poichè tale non si può chiamare una specie di stallo, ove per mia sventura dovetti cercare cibo e ricovero per la notte. È luogo di sosta dei molti carrettieri che vi transitano, e per essi sarà luogo conveniente, non per chiunque sa adattarsi bensì ai disagi del viaggiare in Sardegna, ma desidera almeno una mediocre nettezza.

In ogni modo bisogna entrare. Un pezzo d'omaccione alto due metri e largo in proporzione, burbero, taciturno è il padrone di codesta specie di posada, o meglio vera venta spaguola; esso però non si occupa di alcuna bisogna, e sta neghittoso e fermo come una cariatide appoggiato agli stipiti della porta; i pochi servigi son fatti dalla sua vecchia moglie alla quale esso comanda come un sultano, e che vedesi accoccolata a terra davanti al focolare che sta immezzo alla affumicata cucina, e sul quale bolle una pentola ove gorgoglia una scura broda spartana.

Un vasto cortile trasformato in letamajo con stalle da un lato, e un porticato dall'altro che dà accesso a due luride stanzaccie terrene, formano colla nominata cucina tutta la locanda.

Un po'di coriacea ed insipida carne di capra lessata con pane da otto dì, inaffiati con un vinaccio scuro che sapea di muffito e per soprassello di zolfo, fu tutto quello che mi fu imbandito dall'ostiera sopra un nudo pancaccio nella cucina, spoglio per buona ventura di tovagliolo che con quell'insieme non sarebbe certo stato un modello di pulitezza. Buon per me che mi restava ancora qualche uovo sodo e qualche arancia delle mie provvigioni, così feci, maciullando a due palmenti, un pasto Luculliano, perchè condito da una fame da poeta.

Dopo il pasto mi aggirai pel paese e nei contorni a respirarvi aria più pura. Lunghe file di pesanti carri a bovè aggiogati pel capo trasportavano le messi; le donne cantando villereccie canzoni, tornavano dalla vicina fontana portando sul capo, con gran disinvoltura senza cèrcine che le ajutasse a mantener l'equilibrio e senza gettare stilla d'acqua, le ricolme loro ampie e pesantissime giarre, specie di anfore di sottilissima argilla cotta, porosa, che mantiene assai fresca la temperatura dell'acqua; i mietitori rientravano dai campi a frotte, imbruniva, tutti si ritraevano alle case loro, bisognava pure ritirarsi e cercare riposo massime dovendo partire prima di giorno.

Il momento fatale era giunto; onde non restare all'aperto, e buscarsi certamente le febbri, era giocoforza entrare nella camera assegnatami. In essa, vasto locale a terreno umido e sucido, che per una distinzione speciale mi era stato tutto riserbato, erano tre o quattro canili piuttosto che letti esalanti tutt' altro che soavi olezzi; dalle lacere impannate dell'unica piccola finestra entravano buffi di vento fresco notturno, che facevano oscillare e tentavano spegnere la fiammella del fumoso lucignolo ad olio che diradava a stento le tenebre. La porta non si potea chiudere che a mezzo, tanto ne erano sconnesse le imposte sprovviste di saliscendi; due o tre sedie spajate e zoppe compivano il fastuoso mobiglio, di tavola ove almeno posare il lume, punta; sarebbe stato un superfluo lusso! Non mancavano però immagini di santi grandi e piccoli, con iscritte francesi e spagnuole, appese alle scabre pareti bigie e trasudanti umidore. Coricarsi su quei letti, certo semoventi, non era cosa possibile; passeggiai a lungo sull'ineguale ammattonato, fiaccando i piedi più che sull'acciotolato di una strada, finchè aggravandomisi le palpebre, mi ravvoltolai nella mia ampia coperta di lana, indispensabile arnese che tengo sempre meco in viaggio, e coricandomi vestito com'ero sopra le sedie ineguali trovai un placido sonno, come se fossi adagiato in soffici piume.

Era alta la notte quando si partì, ed io ero pronto prima di tutti; ben poco tempo mi aveva preso la toeletta, nè del resto vi avrei trovato il bisognevole.”




[1] Carlo CORBETTA, Sardegna e Corsica, Libri due, Milano 1877, pagg. 394-398
 

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