FANARI DONNICALIA E VILLA
di Elisabetta Artizzu
Agli inizi del Mille la Sardegna si presenta divisa
in quattro giudicati – Cagliari, Arborea, Torres e Gallura – articolati al loro
interno in ripartizioni a carattere amministrativo, giudiziario e militare: le
curatorie, le scolche e le ville. Ciascuna curatoria aveva la sua estensione
geografica e risultava formata da un complesso di scolche e di ville. Al giudicato
di Cagliari apparteneva, tra le altre, la curatoria di Gippi formata, grosso
modo, dal territorio degli attuali comuni di Decimoputzu, Serramanna,
Vallermosa, Villacidro e Villasor, dipendenti oggi dalla provincia di Cagliari,
al cui interno gli storici della geografia e degli insediamenti umani hanno
rinvenuto ricordi e vestigia di almeno venticinque luoghi abitati esistenti nei
secoli compresi tra l’XI e il XIV. La curatoria di Gippi confinava al nord con
la curatoria di Bonorzuli, appartenente al giudicato d’Arborea, e con quella di
Nuraminis; ad est con la curatoria di Dolia; a sud-est con quella di Decimomannu
e a sud con quella del Sigerro. La superfice totale del territorio, come
risulta dalle misurazioni effettuate sulle tavolette dell’Istituto Geografico
Militare, è di 425 kmq. Il nome deriva da due centri abitati ormai scomparsi
Gippi Suso, situato nel territorio di Villasor, e Gippi Jossu a Decimoputzu.
Decimoputzu è unito a Vallermosa da una strada
lungo la quale appaiono alcune collinette di probabile natura vulcanica che costituiscono
il complesso del monte Gutturu Gionis da cui si protende verso nord, uno
spuntone di roccia allungato che lambisce il terreno indicato dai locali come
Monte Fanari dove esistette, nel medioevo, un omonimo centro abitato delle cui
vicende si vuole tracciare un profilo sulla base della documentazione
esistente.
Nel 1108 il giudice cagliaritano Torchitorio di
Lacon, il cui nome di battesimo era Mariano, donava per la salvezza della sua
anima e dei suoi antenati a Dio alla chiesa di Santa Maria dell’arcivescovato di
Pisa quattuor curtes que domnicalie vocantur. Il nome della prima non risulta
leggibile – ma si tratta, come si evince da un altro documento, di quella
denominata Palma situata nella curatoria di Gippi – di Astia, situata nel
Sigerro, di Fanari anch’essa in Gippi, di Montone situata in Sepollo,
subregione della stessa Gippi. La donazione alla chiesa di Pisa rappresentava
la gratitudine per il soccorso prestatogli da un gruppo di cittadini pisani che
per un anno erano rimasti al suo servizio con tre galee presso l’isola di
Sant’Antioco, quando egli si batteva per strappare il trono allo zio Torbeno,
che lo aveva usurpato. Dei Pisani è detto che nell’aiuto dato nella lotta
contro l’usurpatore agirono cum grandi inopia atque plurimis angustiis. Le quattro
donnicalie venivano cedute con tutte le loro pertinenze, con i servi le ancelle
e il bestiame – cavalli, giumente, buoi, vacche, pecore e capre, maiali – che
vi si trovava. La donazione era fatta con il consenso, la volontà e il comando
dei fratelli e delle sorelle del giudice in modo che ne godessero la proprietà
e i frutti l’arcivescovo, i canonici e gli operai dell’Opera. Oltre alla
donazione delle donnicalie egli prometteva di dare annualmente all’Opera un
libbra d’oro, o l’equivalente, e, a sue spese e sempre annualmente, una nave
carica di buon sale, concedeva ancora ai Pisani l’esenzione dal pagamento di
dazi e tributi e si impegnava ad inviare, a sue spese e per tutta la durata
della sua vita, un maestro muratore che lavorasse fino al compimento del duomo
pisano. Testimoniarono alla stesura dell’atto fratelli e sorelle del giudice,
indicati come donnicelli, alcuni curatori, altri appartenenti a famiglie di
ceto elevato, il donnicello Comita lociservator, il vescovo Salvio. L’atto fu
steso da Benedetto vescovo eletto di Dolia. I cittadini pisani, presenti
all’atto, che gli prestarono il loro aiuto ai quali egli esprimeva il suo
ringraziamento erano Gerardo detto Gaetano figlio di Ugone, Lotterio del fu
Giovanni, Ildebrando figlio di Sibilla, Ugo figlio di Azzo, Mariano figlio di
Lamberto, Teodorico del fu Lei, Moretto del fu Moretto, Arrigo detto Grugno,
Benedetto Fabbro figlio di Raimondo, Uguccione del fu Raimondo, Manfredo del fu
Bernardo, Ugo del fu Albiero e tutti i loro compagni che parteciparono
all’impresa; una menzione particolare andava a Gerardo detto Barile e a
Benedetto del fu Santa. Si trattava probabilmente dei capitani e dei membri
degli equipaggi delle navi o, comunque, di persone che sostennero con aiuto
militare o finanziario la causa del giudice. Tra le persone citate
sembrerebbero riconoscibili i nomi di alcuni appartenenti a famiglie che
svolsero un ruolo importante anche nella storia della città di Pisa oltre che
nella storia dei rapporti pisano-sardi. Basterà ricordare Teodorico quondam Ley
che potrebbe appartenere alla nobile famiglia Ley, o Casaley, che in tempi
successivi si troverà divisa in diversi rami – Casalei Bottari, Casalei Galli,
Casalei Lancia, Casalei del Turco – che pur distinti dai diversi cognomi si riconobbero
tutti nella medesima consorteria. Si può anche ricordare Arrigo detto Grugno
che potrebbe appartenere alla famiglia Del Grugno: famiglia di popolo alcuni
esponenti della quale agirono nella mercatura, altri esercitarono la
professione di giudice, altri svolsero attività politiche. Successivamente, in
data non lontana dalla precedente, il giudice, seguendo una prassi ormai consolidata
e giustificata dal fatto che si trattava di una donazione importante dal punto
di vista politico ed economico, fece redigere alla presenza di testi sardi
l’inventario dei beni donati. Si tratta di un elenco di terre e di servi e
ancelle che a queste facevano capo. È evidente, anche se il testo non vi
accenna, che sulle terre elencate sorgevano case per le famiglie servili,
ricoveri per il bestiame e locali nei quali venivano riposti gli attrezzi
agricoli e i prodotti dell’agricoltura.
Dal documento risulta il nome della donnicalia
omesso nel documento precedente – Palma – e le già citate Montone, Astia,
Fanari.
Da quanto certificato dal giudice risulta che nella
curtis o donnicalia di Fanari risiedevano dieci famiglie servili: Arzocco con
la moglie e i figli, Giovanni Clopu con la moglie e i figli, Giovanni de Oza e
figli, Pellari Cordula con la moglie e i figli, altro Cordula con i figli, Citu
de Fesa con moglie e figli, Lucia de Balari con i figli, Iorgide Folloni con
moglie e figli, Cittu de Iesa con moglie e figli, Pellari Pipia con moglie e
figli. Si tratta di dieci capofamiglia ai quali sono da aggiungere sei donne e
ipotizzando un minimo di quattro o cinque figli a famiglia si può arrivare
agevolmente a contare una sessantina di persone.
Della donnicalia facevano parte le semite di Sueriu
de Froja e di Monte Majori di Sueriu, di entrambe sono indicati i confini; un’altra
semita indicata come Diligi dantas de Campiu de Zellaria, dove Diligi è da
intendersi come d’iligi cioè d’elce, della quale, invece, non sono indicati i
confini. A questi territori si aggiungono inoltre la domestia di Masone de
porcus, quella di Serra Deureu, cioè de ureu, del cardo, quella di Pelai e la
vigna di Piscina de Kalbusa.
Il 13 febbraio del 1130 il giudice Costantino,
succeduto a Torchitorio, confermava la donazione effettuata da suo padre
all’Opera, l’atto di conferma fu steso nella curia dell’arcivescovo
cagliaritano.
Costantino rinnovava e confermava la donazione per
la salvezza della sua anima e del suo genitore, per amore dei buoni uomini
pisani e per esaudire le loro richieste, veniva quindi ribadita la cessione
all’Opera delle quattro curtes ed il giudice vi aggiungeva una clausola in
virtù della quale si dichiarava che i furti commessi ai danni dei beni donati
sarebbero stati considerati e puniti, se scoperti, alla stessa stregua dei
furti commessi nei confronti delle cose appartenenti al fisco giudicale. Alla
stesura dell’atto testimoniarono, tra gli altri, il donnicello Turbino, zio
materno, il donnicello Serchi, curatore del Campidano, Arzocco de Lacon
curatore di Gippi e tra i cittadini pisani Gerardo Gaitano, Vernano figlio di
Pietro, Gerardo del fu Pandolfo, Alberto del fu Tebaldo, Sambro e Ranieri del
fu Federico, i fratelli Ugone e Pietro del fu Gerardo, Cassino e molti altri
buoni uomini sardi e pisani. Era presente all’atto anche Lamberto che viene designato
come rector et gubernator predicte curtis et erat operarius predicte ecclesie
Sancte Marie. Tra i nomi dei cittadini pisani presenti meritano, forse, qualche
attenzione quello di Gerardo Gaitano che potrebbe appartenere alla domus
Gaitanorum, potente consorteria alla quale fecero capo i Bellacera e i
Bochetti, e quello di Lamberto, non sardo almeno stando al nome, che viene
definito come rettore e governatore delle indicate curtes o donnicalie del
quale viene inoltre affermato che era operarius…. . ecclesie Sancte Marie, da
ciò si può dedurre che le unità territoriali donate alla chiesa pisana nel 1108
avevano, nel 1130, un loro amministratore che non doveva essere il primo se
erano trascorsi già ventidue anni. I titoli di rector e gubernator si spiegano
con il fatto che Lamberto reggeva e amministrava per conto dell’Opera di Santa
Maria i territori ad essa donati con tutto quanto a questi si riferiva uomini e
donne, animali e suolo mentre il titolo di operaio, a lui attribuito, deve
intendersi come limitato alle funzioni che egli, per delega del gestore di
tutta l’amministrazione dei beni della chiesa pisana, svolgeva nelle quattro
curtes o donnicalie di Montone, Fanari, Palma, Astia. È noto che il centro dell’amministrazione
dei beni che affluivano, per via di lasciti, acquisti e donazioni, da varie
parti d’Italia e dell’Oriente all’Opera di Santa Maria stava a Pisa affidata
nei secoli a un amministratore che prendeva il nome di Operaio, la cui carica
era vitalizia, il quale, oltre ad attuare il piano di portare a termine la costruzione
della Cattedrale, accumulò nella propria sfera di competenze altri e importanti
compiti, primi tra tutti quelli della manutenzione degli edifici e quello di
salvaguardare e aumentare il patrimonio dell’Opera. Per realizzare questi obiettivi
venivano ordinati periodicamente gli inventari dei beni ad essa appartenenti e
a questi si farà riferimento nel presente lavoro.
Capitava quindi che l’Operaio dovesse delegare una
parte delle sue incombenze a persone stabilite nei vari luoghi in cui l’Opera
aveva beni le quali, incaricate dell’amministrazione locale, vengono indicate con
nomi diversi: operarii, factores, castaldiones, administratores, procuratores,
non raramente, se sardi risultavano di ceto servile.
Dalla donazione fatta dal giudice Torbeno e dal
successivo inventario emergono la forma variegata del paesaggio agrario sardo e
la molteplicità delle situazioni produttive e insediative come testimoniano i termini
donnicalia, semita, domestia, vinea. Fanari e le altre località citate
nell’atto vengono definite donnicalia; il vocabolo trae la sua origine
etimologica dal titolo spettante al giudice – donnu – da qui la conseguenza che
le sue proprietà sono res dominicalis. Il termine non significò casolare, come
affermò il Tola, bensì indicò, come si legge nei commenti ai documenti
riportati dallo stesso, vasti comprensori dotati di ricche pertinenze: servi,
ancelle, animali, terre, vigne, pascoli, fondi coltivati e incolti, quindi non
semplici casolari ma grossi aggregati di uomini e terre. Corti, come affermò
Besta, spettanti al donnu. Se poi si esaminano con attenzione altri documenti di
donazioni dello stesso secolo XII contenuti nel Codex Diplomaticus Sardiniae ci
si rende conto di come le definizioni utilizzate per indicare tali complessi, e
che consentono di comprenderne meglio la fisionomia, varino. Le donazioni a
chiese o enti religiosi del continente furono in quell’epoca molto numerose,
fatte alla chiesa pisana e a quella genovese o ad importanti ordini religiosi e
colpisce il fatto che il donatore indichi, talvolta, il bene donato come curtis
o curia tanto che per chi legge donnicalia, curtis, curia appaiono avere il
medesimo significato e indicare la medesima realtà. L’uso degli ultimi due
termini nei documenti ufficiali si può spiegare col fatto che, probabilmente,
risultavano più comprensibili ai riceventi continentali. Nell’illustrare le
donazioni relative a Fanari si è sottolineato il termine curtis quando era
affiancato al termine sardo, ma oltre a ribadire quella che era la natura della
donnicalia va ricordato che la curia è una corte in senso ampio, centro di
attività agricolo pastorali ma anche luogo di residenza dello stesso donnu. Non
si può parlare di casolari ma come sostiene Cortese di “complessi agrari tanto importanti
e segnati da una struttura così unitaria da poter marcare non solo la
toponomastica dei luoghi, ma da riuscire talvolta a trasformarsi in ville”,
come avvenne nel caso di Fanari e di altri comprensori.
Come azienda agraria, ricca di popolazione, la
donnicalia è articolata, allo scopo di produrre beni, in un insieme di elementi
materiali e sociali così nella donnicalia di Fanari esistevano, e con essa
venivano donate, tre semitas, tre domestias e una vigna. Col nome semita si indicava
il terreno seminativo, terre precisamente delimitate proprio perché riservate
esclusivamente alla coltivazione. La domestia era un piccolo insediamento, più
o meno precario, contadino o pastorale su appezzamenti sparsi nel territorio,
una casa rurale cui erano assegnati servi per lavorare le terre annesse
all’interno delle quali si praticavano, probabilmente, attività di allevamento
o monoculture agrarie. Una delle tre domestias all’interno della donnicalia di
Fanari viene chiamata Masone de porcos, dove masone indica non solamente il
branco di bestiame minuto – pecore, capre, maiali – ma anche il luogo in cui questi
animali venivano ricoverati. Sulla vigna, frequentemente oggetto di donazioni,
permute e vendite nella Sardegna giudicale non si può dire niente perché non ne
è indicata l’estensione né quanti ordini o filari la compongono, né la loro
consistenza.
Per il periodo compreso tra la conferma della
donazione giudicale, il resto del secolo e il primo settantennio del secolo
XIII mancano notizie di Fanari. Certamente la donnicalia avrà visto ampliato il
suo territorio, al nucleo primitivo si saranno aggiunti altri abitanti, gli uomini
liberi avranno superato il numero di coloro che vivevano in condizione servile.
Lo sviluppo delle attività agricole e pastorali, il commercio dei prodotti in
esubero rispetto al consumo locale avrà migliorato il tenore di vita degli
abitanti e avrà determinato un incremento della popolazione. I documenti sui
quali è condotta la presente ricerca mostrano che nel 1270 la curtis originaria
si è ampliata, è diventata un distretto amministrativo più vasto, distinto da
una sua particolare fisionomia giuridica ed economica: è diventata una villa.
Questo termine, nella Sardegna giudicale, indicava
la realtà insediativa del villaggio dalle dimensioni variabili e popolato
indistintamente da uomini di condizione libera o servile. La villa rappresentò il
nucleo fondamentale della vita sociale e economica, centro di organizzazione del
territorio che veniva occupato e sfruttato attraverso un abitato sparso e
frazionato, sebbene, nella Sardegna dell’XI e XII secolo, se si tengono
presenti la forma dell’insediamento, la composizione della popolazione, il
rapporto con la terra, la posizione delle singole comunità rispetto alle
signorie rurali e al potere pubblico, rappresentato dal giudice e dai suoi
funzionari, non sembri esistere un tipo unico di villaggio. L’economia della
villa si fondava, essenzialmente, sullo sfruttamento comunitario delle risorse
disponibili per la sopravvivenza e trovava spazio anche la piccola iniziativa
privata che i suoi abitanti conducevano su terre di proprietà o avute in godimento.
La villa muta nel tempo: tra l’XI e gli inizi del XII secolo appare come una
struttura insediativa, a volte di mediocre consistenza demografica, all’interno
di una società curtense priva di centri urbani e caratterizzata da un’economia
fondata sul baratto e la permuta e da una diffusa manodopera servile per poi
andare incontro, a partire dalla metà del XIII secolo, a profonde modificazioni
conseguenti alla comparsa delle città. Le complesse vicende legate alla
presenza pisana e genovese nell’isola modificarono il tessuto abitativo
determinando una ristrutturazione del territorio rurale che portò da un lato a
una riduzione del numero degli abitanti di una serie di centri dalle dimensioni
differenti a vantaggio di altri e dall’altro alla dissoluzione di insediamenti
di piccole dimensioni a vantaggio di processi di inurbamento che lasciarono
spopolate le campagne. L’introduzione degli ordinamenti feudali, in seguito
alla conquista catalano-aragonese – causa per la Sardegna di profondi mutamenti
negli assetti politico-istituzionali, economici, sociali e fiscali – comportò l’assoggettamento
delle ville alle esigenze economiche delle città che avevano il diritto di
esigere una parte consistente della produzione cerealicola delle campagne.
Nell’ottobre del 1270 il pisano Gerardo, detto
Guercio, della cappella di san Martino in Guazzolungo, delegato dell’Operaio
Ranieri Vallecchia all’amministrazione dei beni che l’Opera possedeva nel
giudicato cagliaritano, ne stilava l’inventario per ordine del suddetto, poiché
nei documenti non vi è accenno a precedenti spostamenti di Gerardo nelle terre
del giudicato è probabile che egli si avvalesse di informazioni acquisite in
precedenza e quindi annotate.
Comunque dettava al notaio Bonamico del fu
Diotisalvi, sotto il portico della casa di Ranieri Bindoco, sita nella Ruga
Mercatorum del Castello di Cagliari, alla presenza dei testimoni Rubertino,
notaio, Giovanni Sutore del fu Boninsegna e Gaddo del fu Pericciolo Bandi, l’elenco
dettagliato dei beni che l’Opera possedeva nel giudicato.
L’inventario procede con un certo ordine nel senso
che descrive i beni situati nelle ville più vicine a Cagliari per poi passare a
parlare di quelli dislocati nelle ville più lontane, per poi tornare a
Cagliari.
L’Opera risulta possedere beni nella ville di
Sipollo, Fanari, Uta, Cinnuri, Josso, Astia, Prato e Teulada ai quali si
aggiungevano due appezzamenti di terra nel Castello di Castro su ciascuno dei
quali sorgeva una casa, uno sito nella Ruga Mercatorum, l’altro nella Ruga Marinariorum,
del primo si dichiarava che il suo affitto poteva fruttare annualmente 26
libbre e 15 denari di aquilini minuti, quello del secondo 23 libbre. I beni
situati nelle ville erano, invece, rappresentati dal lavoro che servi e ancelle
dovevano all’Opera e da grandi quantità di bestiame di varia taglia, molti capi
dei quali erano affidati ad abitanti dei luoghi. Va sottolineato che il nome di
tre ville – Sipollo, Fanari e Astia –, tra quelle elencate, corrisponde a
quello delle vecchie donnicalie donate all’Opera nel secolo precedente;
sembrerebbe che durante i centoquarant’anni trascorsi si sia verificato al loro
interno quel fenomeno di espansionismo e di arricchimento cui si è prima
accennato. Di questo stato di cose l’inventario di Gerardo Guercio offre solo
una visione parziale poiché si riferisce ai soli beni dell’Opera accanto ai
quali sono esistiti i beni, le terre, le case, il bestiame, i liberi e i servi
che componevano il nucleo delle ville dipendenti dal comune pisano.
Nella villa di Fanari l’Opera disponeva, nel 1270,
del lavoro di sette servi, Marghiano Porci, Pietro de Arcia, Gomita Pia, Gomita
Manca, Cocco Pelle, Pietro Trincas, Guantino Soro, cui si aggiungeva il lavoro dovuto
da quattro ancelle, non nominate, e la metà del servizio di un’altra ancella.
Tutti, maschi e femmine, risiedevano nella villa nella quale l’Opera possedeva
13 buoi domiti, affidati a Guantino Soro, 168 pecore in grado di figliare, nove
arieti, 38 agnelli femmine, 21 agnelli maschi, affidati a Pietro Trincas. In un
altro branco – gama – nei territori della villa stavano 106 vacche in grado di
figliare, 11 vitelli, 11 vitelle di un anno, 22 tori, 24 vitelli, 28 vitelle
nate nell’anno e inoltre 102 vacche in grado di figliare, 16 vitelli e 7
vitelle di un anno, 17 tori, 22 vitelli e 23 vitelle nate in quell’anno; i due
branchi erano affidati a Marghiano Porci e a Guantino Manca.
Un anno dopo, a Fanari, Pietro Soro della villa di
Prato Sulcis riceveva da Profficato del fu Bernardino di Vico, il quale versava
per conto del ricordato Gerardo Guercio – già amministratore dei beni cagliaritani
dell’Opera –, altri beni che l’Opera possedeva nella villa di Fanari. Soro si
definisce servus Opere Sancte Marie de Pisis, operarius et rector, sindicus et
procurator et gubernator Opere Sancte Marie in Kallari et toto regno
kallaretano per tutte le case, terre e possessioni, cose mobili e immobili,
animali, servi, ancelle, redditi e proventi che appartenevano all’Opera nel
regno di Cagliari, ed era stato nominato all’amministrazione di quei beni da
Ranieri Vallecchia Operaio dell’Opera a Pisa con un documento della fine del
settembre appena trascorso, rogato dal notaio Bonaccorso di Ildebrandino e
visionato al presente dal notaio Gerardo. I nuovi beni percepiti non erano
stati compresi nell’inventario stilato nell’anno precedente, la cui
amministrazione era pervenuta a Profficato, e consistevano in 139 pecore, 6
montoni, 7 pelli morticine di pecora, 160 vacche matricine, 39 vitelle di un
anno, 35 vitelli di un anno, 10 buoi domiti, 34 buoi grandi, 30 vitelle nate
nell’anno, 32 vitelli maschi, 3 grandi buoi che si trovavano nella villa di
Sipollo, 3 pelli morticine di vacca, inoltre il Soro dichiarava di avere in
custodia tutte le case e possessioni, servi e ancelle che l’Opera possedeva a
Fanari affidate a Profficato da Gerardo Guercio e a lui consegnate. L’atto fu
steso nei pressi di Fanari, in confinibus ville, in un pezzo di terra
appartenente all’Opera, denominato Argiola, furono presenti in qualità di
testimoni Parasone Athori e Guantine Athori abitanti della villa. Alcuni mesi
dopo il 22 marzo 1272 lo stesso Piero Soro riferendosi alla nomina avuta
dall’ormai defunto Operaio Ranieri Vallecchia e ottemperando al desiderio di
Ugolino Aliotti, visitatore delle case e dei possessi dell’Opera, eletto dall’Operaio
Orlando Sardella succeduto al Vallecchia, procedeva a un ulteriore aggiornamento
dell’elenco dei beni che l’Opera deteneva nel cagliaritano per integrare il
precedente inventario già consegnato a Profficato del fu Bandino. Il Soro
dichiarava che a Fanari l’Opera disponeva delle prestazioni lavorative di molti
servi e ancelle: i servi integri erano Guantino Soro, Marcusa sua moglie,
Gomita Bibio, Marghio Socco, Arzocco suo figlio, Marghiano Porci, Pietro di
Astia, Maria Inulte, Vera sua figlia, Giusto Menio, Giorgio Manca figlio di Guantino,
Guantino Cuccu, Pietro Porci, Giorgia sua madre, Gonaria Porci sua figlia; i
servi laterati erano Marcusa, moglie di Gomita Bibio, Sivaghina sua figlia,
Elena moglie di Marghio Socco, Guantino Manca; i servi pedati erano Gomita
Manca, Gomita Tuliu, Arzocco Locci, mentre Maria figlia di Arzocco – figlio di
Marghio – doveva all’Opera i 2/3 del suo lavoro. Come si vede l’Opera disponeva
del lavoro, seppure non del tutto pieno, di ventitré persone, una notevole
quantità di manodopera servile alle sue dipendenze. Per quanto riguardava il bestiame
l’elenco stilato dal Soro non si discosta da quanto egli aveva ricevuto da
Profficato, mentre riveste una particolare importanza per le informazioni che
fornisce sui terreni posseduti dall’Opera nella villa qualificati per la gran
parte come domestie che vanno intese come terreni sui quali sorgevano piccole
abitazioni per i lavoratori della terra, per la conservazione dei prodotti, per
la custodia del bestiame, per il deposito degli attrezzi di lavoro sia che vi
si praticasse l’agricoltura o l’allevamento. Sono elencate le domestie di
Ibereca, Serreurno, Mistene de Porcha, Serrevero, Prato Ioso, Ficusdebelu,
Platea d’Orto cui si aggiungevano la vinea di Fanari, notata precedentemente, e
il saltus di Suergiu cum saltu et prata sua, dove saltus indica un vasto e aperto
terreno boscoso, in questo caso ricco di sughere – suergiu – nel quale si trovano
anche delle zone disboscate – prata – dall’uomo e adibite al pascolo.
Si è fin qui seguito, per quanto lo ha consentito
la documentazione, lo svolgersi di alcune tappe che hanno segnato la vita di
Fanari e il suo passaggio da donnicalia – o curia – giudicale, originariamente popolata
da un nucleo di servi legati al lavoro della terra, a villa caratterizzata, quindi,
dalla struttura tipica di questo agglomerato umano che fu la base
dell’organizzazione politica e sociale della Sardegna.
Nella seconda metà del XIII secolo nelle campagne
sarde si assiste a una trasformazione dovuta al fatto che la villa prende il
sopravvento sulle altre forme organizzative presenti nel territorio diventando centro
di insediamento, a volte di piccole dimensioni, ma dotate di personalità
giuridica propria e di un territorio delimitato ma articolato nelle pertinenze.
L’impulso alla trasformazione è stato certamente causato dalla presenza
dell’Opera che ha dato incremento alle attività agrarie e pastorali che hanno
portato alla costituzione di un cospicuo patrimonio. Sarebbe, però, sbagliato
ritenere che il destino di Fanari sia stato un’eccezione perchè altre donnicalie
donate all’Opera seguirono la sua stessa sorte trasformandosi in aggregati maggiori
e acquistando consistenza di ville alcune delle quali ancora oggi esistono e
conservano il nome antico, a differenza di altre che ebbero un destino diverso
e per motivi svariati, quali guerre, pestilenze, carestie, alluvioni, decaddero
e scomparvero lasciando, però, nella maggioranza dei casi il nome al territorio
che le accoglieva.
Il procedere dell’Opera in Sardegna è da vedere
nella fine del parziale isolamento dal quale l’isola uscì dopo il Mille. La
prima presenza dell’Opera risale al 18 marzo del 1082 – la fabbrica della
cattedrale aveva avuto inizio vent’anni prima – nel giudicato di Torres. Non è il
caso di ripercorrere tutte le tappe del cammino dell’Opera: per quanto riguarda
il Cagliaritano, e omettendo qui di trattare la presenza genovese, bisogna
ricordare che alla presenza nella parte occidentale del giudicato, dal golfo di
Palmas all’odierno Campidano, si aggiunse, sempre per via di donazioni, la
presenza della stessa sulle coste orientali dal Capo Carbonara al Sarrabus e
all’Ogliastra.
L’Opera deve essere considerata come l’apripista
alla penetrazione di cittadini pisani che vennero, ottenendo agevolazioni
tributarie, in veste di mercanti per poi occupare posizioni di riguardo nei
giudicati prestando denaro, stringendo parentele con le casate maggiorali,
gettando così le basi di quella che sarebbe stata la supremazia politica del
Comune dell’Arno. Nel 1310 venne redatto dal camerario Nello Falcone, durante
l’operariato di Burgundio Tadi, un inventario generale delle rendite dell’Opera
pisana che elenca, in una delle sue tre parti, le ormai ragguardevoli
proprietà, nonchè le rendite da queste derivanti, dell’Opera in Sardegna. Per
quel che riguarda Fanari l’Opera si avvaleva delle prestazioni lavorative di
otto persone tra servi e ancelle, di cui, però, non viene indicato il nome né
il tipo di servizio dovuto, mentre il patrimonio terriero consisteva in sei
appezzamenti di cui vengono indicati i confini e i nomi dei confinanti.
Il primo elencato è un pezzo di terra situato nel
luogo detto Chapereta, che confinava con la terra di Pietro Daserri e con
quella di Pietro Penna e poteva essere seminato con cinque starelli di grano,
gli altri erano un terreno seminativo che confinava con la corte di Fanari, con
la via pubblica, con la via che portava a Palma, situata a nordest e distante
circa cinque km, e con la terra di Santa Maria di Fanari Giosso e che poteva
essere seminato con cinquantadue starelli d’orzo; un altro terreno situato nel
luogo chiamato Terra di Cardo e posto tra la via pubblica e un bosco che poteva
essere seminato con venti starelli d’orzo; un terreno in località Terra di
Narboni, in parte adibito a pascolo in parte coltivabile con sei starelli
d’orzo; un terreno chiamato Fico di Pellaia che confinava con la terra di donno
Guiduccio e con quella di Pietro Penna, che poteva essere seminata con nove
starelli di grano e infine un altro terreno confinante con la corte e con la
via pubblica che poteva ricevere la semina di quattro starelli di grano.
L’indicazione dei confini è molto dettagliata, espressione di documenti redatti
anche per esigenze fiscali, e prevedeva l’indicazione non solo del toponimo
della zona, ma anche dei confinanti principali in modo che, fornito il maggior
numero di informazioni possibili, non ci potessero essere contestazioni sulla
riconoscibilità del bene. Non mancavano neppure riferimenti precisi alla
capacità del terreno di ricevere semente, il che permetteva anche di
determinarne l’estensione e sottolinea l’importanza della coltura cerealicola nel
quadro generale dell’economia. Il capitale zootecnico era rappresentato da 150
capi tra vacche e buoi e da 178 capi tra pecore, montoni e agnelli. Tra le
informazioni contenute nell’inventario va sottolineato il riferimento alla
terra di Santa Maria di Fanari Giosso che sembra accennare all’esistenza di una
chiesa, Santa Maria di Fanari, che come tutte le chiese doveva avere un suo
patrimonio di cui faceva parte il territorio citato nell’atto, identificata
come Santa Maria di Fanari di giù. Evidentemente l’inventario prende atto della
esistenza – non databile con precisione ma da collocare dopo il 1270 e prima
del 1310 – di Fanari Giosso inteso come un nuovo abitato sorto ai piedi
dell’originaria primitiva Fanari la quale successivamente divenne Fanari Suso.
Nei primi due decenni del secolo XIV l’Opera continuò a esercitare
pacificamente la sua attività e accumulò ulteriori ricchezze nell’isola e in
Toscana. Si può affermare, per esempio, che al primitivo gruppo di case e
terreni da essa posseduti nelle Rugae Marinariorum e Mercatorum del Castello di
Cagliari se ne aggiunse tra il 1320 e il 1322 almeno un’altra situata nel
tratto della Ruga Helefantis detta Neapolitanorum.
Nel 1320 l’Operaio Giovanni Rossi, che era stato
insediato nella carica l’anno precedente e l’avrebbe tenuta fino al 1331,
disponeva che si procedesse all’inventario completo dei beni che l’Opera possedeva
in terraferma e in Sardegna. Si tratta di un testo molto dettagliato, occupa
una pergamena che misura 7 centimetri di larghezza e supera un metro di
lunghezza. Dopo l’elenco degli arredi e degli utensili che si trovavano a Pisa
nelle Case dell’Opera e la descrizione dettagliata delle case, delle terre, dei
casalini, dei beni immobili dati in locazione o a livello a Pisa, Livorno e nel
contado, con i loro precisi confini e con i nomi dei conduttori, passa alla
fine a descrivere i beni sardi dell’Opera. Dei dati relativi a questi ultimi è
detto che sono stati forniti al Rossi da Petruccio del fu Arsocco Varisi di Sassari
per mezzo di lettere e dall’Operaio fatti inserire nell’inventario, il Varisi
viene definito sindicus et procurator dicte domini Operarii.
Nella villa di Fanari la manodopera servile era
rappresentata dai servi integri Margiano Porcis, Gomita Leo, Pietro Leo, Elena
Leo; Famona Matta doveva i 3/4 del suo lavoro; Rosa Matta era serva laterata.
Il capitale zootecnico era rappresentato da 93
vacche in età di figliare, 23 buoi adatti alla riproduzione o alla castrazione,
64 vitelli tra maschi e femmine, nati nell’anno, 40 vitelli tra maschi e
femmine.
Nella villa l’Opera possedeva un aratro, dotato
dell’apparato che lo metteva in grado di funzionare, tre materassi di
canovaccio, due letti di tavole, una coperta bianca di panno peloso, una
lucerna vecchia, due zappe vecchie anch’esse, una roncola per potare le viti,
una botte vecchia, due buoi domiti; tutte queste massaritias erano affidate a
Margiano Porcis. Per quel che riguarda le proprietà terriere dell’Opera non
sembrerebbero intervenute sostanziali modifiche rispetto all’inventario del
1310, anzi i nomi dei luoghi, i rispettivi confini e i nomi dei confinanti
indicano una situazione immutata. Dalla lettura di quest’elenco di beni
posseduti dall’Opera in Fanari scaturiscono alcune considerazioni: il numero
dei servi non è molto abbondante rispetto a quello che si può riscontrare nella
stessa villa per il passato ed in altre per il passato e anche per il presente.
La spiegazione di tale fenomeno può essere ricondotta al fatto che a Fanari, col
tempo, doveva essersi sviluppato un ceto di liberi e proprietari di terre e
animali così l’esiguità della popolazione servile, la non grande estensione di
terre coltivabili, che paiono essere all’incirca le stesse del passato, la non
eccessiva quantità di bestiame, si pensi agli inventari del 1270, trova nella
situazione creatasi la sua giustificazione.
Anche in questo inventario compare il riferimento a
Santa Maria di Fanari Giosso – sebbene nel documento, forse per disattenzione o
per un errore di trascrizione, sia diventato Gosso – a testimoniare l’esistenza
di una entità sociale e territoriale che si affiancava all’originaria Fanari.
Non sempre, però, questa distinzione compare nei documenti del periodo infatti
un’altra fonte, che si colloca agevolmente intorno al 1320, riporta la nuda
notazione Villa Fanari Curatorie Gippi. Si tratta del registro n. 1352 del
fondo Opera del Duomo dell’Archivio di Stato di Pisa che, in forma schematica e
riassuntiva, è copia di una parte della Composizione compilata in quel lasso di
tempo da Girolamo de Ecio modulatore in Sardegna per il Comune pisano. Non
tutte le ricognizioni dei beni e degli introiti che il Comune pisano ordinava
periodicamente per la Sardegna sono pervenute e tra quelle disponibili alcune
sono molto dettagliate perché riportano il nome degli abitanti delle ville e
l’entità delle contribuzioni da loro dovute, la descrizione dei fondi con i
loro confini e il nome degli affittuari, singoli o comunità, il tipo di
coltivazioni praticate, la quantità del bestiame grosso e minuto appartenente
al Comune, gli edifici e l’importo delle relative locazioni, perfino il numero degli
alberi da frutto esistenti sui fondi; altre, come quelle cui si fa riferimento,
si limitano a elencare le singole curatorie e le ville e gli introiti in denaro
e in cereali, grani e orzo, che gli abitanti dovevano collettivamente fornire,
nonché le eventuali prestazioni obbligatorie di lavoro.
Dal registro n. 1352 si evince che dalla villa di
Fanari della curatoria di Gippi il Comune ritraeva annualmente libbre 26, soldi
8 pro datio, libbre 4 per il diritto delle taverne, soldi 10 da un terrali ab equo
– si tratta di un colono che ha terra in affitto ed è tenuto a prestare
servizio a cavallo, il che lo esenta dal pagamento del datium – 70 starelli di
grano e 70 starelli di orzo. La guerra che tra il 1323 e il 1326 si concluse
con la conquista dell’isola da parte degli eserciti catalano aragonesi vide il
tramonto della potenza pisana. Le operazioni iniziate nel 1323 ebbero una
tregua nel giugno del 1324, Pisa dovette subire condizioni che ne attenuavano
grandemente la potenza economica, boicottavano gli scali e mettevano in
difficoltà i cittadini pisani rimasti, i commerci, facevano sì che i territori
le fossero sottratti e dati in feudo agli occupanti. Tale situazione portò al
riaccendersi della guerra la quale, conclusa col trattato di pace del 1326, segnava
la definitiva sconfitta della repubblica che vedeva così cancellata la sua
posizione egemonica nell’isola. Col trattato di pace Pisa riceveva a titolo
feudale le curatorie di Trexenta e Gippi, già appartenenti al giudicato di
Cagliari. La presenza degli Iberici nell’isola vide il graduale tramonto
dell’Opera e la dissoluzione delle sue proprietà che furono assorbite
lentamente dai nuovi dominatori, ciò avvenne malgrado il trattato di pace
sancisse che l’infante Alfonso, anche a nome del padre Giacomo, confermasse,
appellandosi alla devozione dovuta alla Vergine Maria, all’Opera tutti i beni
posseduti nel Castello di Cagliari e in tutta l’isola. Tali intendimenti, come
anche quello che disponeva la restituzione all’Opera dei beni eventualmente confiscati,
rimasero lettera morta. Chi si interessasse ai destini dell’Opera nell’isola
durante il prosieguo del secolo troverebbe la testimonianza che suoi beni
finirono affidati per lo più a Catalani per un canone poco più che simbolico e
quasi mai pagato mentre il suo patrimonio scemava progressivamente per
l’impossibilità di avere in loco persone fidate e per la rapacità dell’elemento
catalano-aragonese.
Da ricordare che per un certo periodo di tempo
l’Opera continuò a tenere i registri dei beni tanto che accanto a un inventario
del 1339 che può essere considerato l’ultima verosimile testimonianza
dell’effettivo patrimonio, e sul quale si tornerà più avanti, ne esistono altri
dei decenni successivi perfettamente identici, anche i nomi dei servi sono gli
stessi, al primo citato, malinconico ricordo del tempo passato e ormai mutato.
Le curatorie di Gippi e Trexenta vissero la loro
residua vita nell’orbita pisana e di esse, della presenza dell’Opera, e della
stessa Fanari appartenente alla curatoria di Gippi è possibile seguire le
vicende.
L’archivista della Corona d’Aragòn a Barcellona P.
Bofarull pubblicava nel 1856 un Repartimiento de Cerdeña, datato 1358, contenente
l’elenco di tutte le ville, luoghi e castelli sardi appartenenti alla Corona.
La descrizione è per gran parte la traduzione, eseguita nel 1358, di un testo
già esistente nel Castello di Cagliari che costituiva nella traduzione catalana
un “VI Componiment” dove tale voce è da intendersi come equivalente al latino
compositio o all’italiano composizione, nomi usati dai Pisani per indicare le
raccolte periodiche dei dati riguardanti i tributi in denaro, frumento e orzo e
in lavoro che le ville sarde erano tenute a versare annualmente al Comune.
La lettura del documento pubblicato dal Bofarull
permette di accertare che la Composizione pisana fu redatta dopo il 1320 ma non
dopo il 21 febbraio 1322. Alla primitiva stesura furono aggiunti notazioni e
aggiornamenti del 1324, del 1358 e anche del 1362 riferentisi in gran parte
alle ville della Gallura; il nucleo fondamentale doveva essere costituito da
una Composizione pisana redatta, come detto, prima del 24 febbraio 1322 alla
quale si devono aggiungere le variazioni apportate dai Pisani nel 1324 e le
successive apportate dagli Aragonesi. Il Solmi che la ha esaminata e illustrata
ne parla come di una Statistica pisano aragonese del 1322-58.
Ciò che interessa in questa sede è che Fanari viene
indicata come Fanari Susu e Jossu e che rendeva, prima allo stato pisano e
successivamente alla Corona aragonese, annuali 62 libbre e 8 soldi di moneta alfonsina.
Si è ricostruito l’andamento della villa di Fanari
fino agli anni intorno al 1320 e ciò attraverso le poche fonti fornite
dall’Opera che vanno considerate come testimonianza del solo suo patrimonio.
Accanto ai beni dell’Opera esistevano nella villa, come nella altre ville delle
curatorie, gli interessi di altri enti religiosi oltre che quelli del Comune
pisano. Al Comune pisano si riferiscono le notazioni del Registro 1352 e quelle
fornite dal Bofarull.
Per poter seguire le vicende di Fanari tenendo
conto dell’ordine cronologico della documentazione esistente è necessario
accennare ai beni del Priorato di San Saturno di Cagliari prima di esaminare il
già ricordato inventario dei beni dell’Opera risalente al 1339 e la
Composizione pisana del 1359 che fornisce ampi e consistenti dati su Fanari come
su altre ville di Gippi e Trexenta. Il 30 gennaio 1338 il frate Guglielmo de
Bagarnis, nominato il maggio precedente alla carica di priore del monastero
vittorino di San Saturno di Cagliari, dopo aver preso possesso del monastero
redigeva a Cagliari, assistito dai monaci Milone di Joques e Guglielmo Daniel,
l’inventario delle cose esistenti nel convento e, richiamandosi ad un
cartolario compilato dal predecessore Bertrando Isnardi, un elenco dei beni che
il priorato possedeva nel giudicato di Cagliari e nell’Arborea. Dopo aver
passato in rassegna le proprietà terriere site nelle appendici di Cagliari, nel
Campidano, nelle curatorie di Gippi e Trexenta, in Arborea e notato i loro
redditi annuali in denaro o in cereali – grano e orzo –, le chiese dipendenti dal
priorato, le rendite da esse derivanti, il Bagarnis dedica un paragrafo ai
servi e alle ancelle dipendenti dal monastero. Accanto al nome di ogni singolo
servo o dei gruppi di servi o di singole famiglie servili il de Bagarnis nota
il villaggio di residenza. Di Rosa Melone, Miale Melone, figlia di Maria e
Bonaventura Melone egli annota che sono ancille dicti monasteri et habitant in
villa Fanaris.
Dalla notazione risulta che Fanaris è citata senza
l’aggiunta di ulteriori distinzioni di carattere altimetrico. Il fatto che le
quattro ancelle ricordate siano dichiarate al servizio del monastero di
Cagliari e stanno in Fanari non deve destare meraviglia, si potrà trattare di
persone che hanno ottenuto di stabilirsi là pur mantenendo la dipendenza servile
dal monastero. Tanto più che tutti i servi elencati erano tenuti a versare al
monastero 20 soldi annuali di alfonsini minuti da pagarsi alla festività di san
Michele mentre le ancelle avrebbero dovuto versarne 10. Il pagamento veniva
quasi completamente eluso propter defectum justicie inventum in officialibus
earumdem villarum. Del resto la lettura di carte del periodo e anche del
periodo precedente offre non raramente il caso di servi che versano al Comune
pisano una somma annua pro servitute, si tratta probabilmente di persone temporaneamente
esentate dal lavoro servile tenute a pagare un corrispettivo al Comune.
Nel 1339 veniva compilato per disposizione
dell’Operaio Bonagiunta Accatti un nuovo inventario generale dei beni posseduti
dall’Opera , per quanto riguarda le proprietà sarde si può affermare che
contiene un elenco dettagliato più approfondito e più chiaro di quelli che
finora sono stati esaminati, è diviso per giudicati e nell’ordine descrive le
proprietà situate in Torres, Gallura, Arborea, Cagliari.
La lettura di tale inventario è illuminante perché
pare non trascurare alcun particolare e permette di conoscere molti dettagli
che altri precedenti estensori non avevano trascritto oppure avevano solamente accennato
e perché mostra il deprezzamento delle proprietà dell’Opera ormai in declino
per le conseguenze della guerra e per la presenza preponderante dell’elemento
catalano-aragonese che tendeva a insediarsi in quei possessi e sfruttarli
dietro il pagamento di canoni la cui entità non corrispondeva al valore
effettivo delle cose. Canoni che non venivano sempre corrisposti costringendo
gli Operai a intentare liti che non andavano sempre a buon fine. Nell’elenco di
beni è possibile anche ritrovare riferimenti a vecchi documenti giudicali comprovanti
la donazione all’Opera di taluni beni. Pur senza dilungarsi su tale inventario,
va ricordato che i beni siti nel giudicato di Torres erano stati in precedenza
divisi in due sezioni e dati in locazione a Martino Boninsegna il quale avrebbe
versato annualmente 70 libbre di denari alfonsini per una parte e 30 libbre di
denari pisani per l’altra. Successivamente, al tempo dell’operariato
dell’Accatti, la parte di beni locati per 70 libbre di alfonsini fu affidata al
sassarese Elia di Pietro Varisi per 75 libbre della stessa moneta mentre la
rimanente parte fu affidata per 45 libbre di moneta pisana a Pietro Bocca.
Si trattava di domestie, di estensioni di terra
coltivate, vigne, mulini, saline, servi, ancelle, animali, il terreno descritto
andava dai dintorni di Sassari alla Nurra e all’Asinara. I possessi dell’Opera
in Gallura risultano composti da salti, terreni incolti e terreni coltivati,
case, molto numerose ad Orosei, date in affitto, chiese dotate di arredi, di
terreni, di abitazione per il prete che vi officiava, saline, servi e ancelle e
bestius plurium manierum. Tutto era stato dato in locazione a Vannuccio Conto
di Orosei per annuali libbre 28 di denari alfonsini; il contratto col Conto
risaliva al 1325 ed egli era indicato come servus Opere. I possedimenti
dell’Arborea erano esigui, come lo furono sempre, perché la penetrazione
dell’Opera ebbe poco successo in quel giudicato per quei sentimenti di
indipendenza dei giudici e perché preferirono intrattenere relazioni più
strette con Genova, ciò nonostante non mancano nell’inventario riferimenti a
case, terre coltivate, pascoli, domestie. Un prete sardo dimostrò di disporre
di una carta bullata rilasciata dal giudice arborense Costantino che sanzionava
il possesso dei beni arborensi all’Opera. Lo stesso prete, Gomita, versava
annualmente all’Opera, per quei beni, 50 libbre di moneta genovese pro pensione
delle proprietà dell’Opera e 10 soldi per un terreno a lui dato a livello. Il
compilatore dichiarava che gli importi risultavano dagli atti dell’Opera
stessa. In quell’anno gli stessi beni furono tolti al prete Gomita e affidati
al già ricordato Pietro Bocca per 7 libbre e 5 soldi di denari genovesi.
L’inventario si conclude con la rassegna dei beni posseduti dall’Opera in
Kallari et in Castello Castri.
Dopo aver citato le case solariate ad essa
appartenenti, in numero di sei, che si estendevano dalla Ruga Mercatorum a
quella Marinariorum del Castello, l’inventario passa subito a elencare i
possessi dell’Opera nelle diverse ville del giudicato. Le proprietà dell’Opera
risultano esistenti nella villa di Finassuso, Palma di Sulcis, Astia, Gurgo di
Sepollo, Villamassargia, il patrimonio terriero risulta diminuito rispetto al
passato ma resta comunque ragguardevole. Si nota la presenza di Catalani perché
molti loro terreni confinano con le terre dell’Opera, numerosa, almeno sulla
carta, la popolazione servile. Si tratta di terreni coltivati a orzo e a grano,
di vigne, di corsi d’acqua e di numerosi servi, distribuiti nelle diverse
ville, i quali a Palma di Sulcis e ad Astia si sono ribellati al servaggio. Dei
primi è detto che dicunt se non esse servos et se rebellaverunt degli altri è
detto omnes dicunt se non esse servos et sunt rebellati nolentes servire.
Questi atteggiamenti derivano dalla coscienza che i tempi sono mutati, dalla
consapevolezza che i vecchi dominatori sono in condizioni di inferiorità, dalla
convinzione che i vincitori siano portatori di libertà e di affrancamento.
L’unica proprietà dell’Opera a Villamassargia è
rappresentata da un servo. Le proprietà dell’Opera nel Cagliaritano risultano divise
in due parti, dalla lettura del testo non è possibile dire con quali criteri e
il motivo. Una parte dei beni del Castello era stata concessa al catalano Pietro
Malieri per la somma annua di 38 fiorini d’oro, mentre per l’altra parte il
Malieri doveva 20 libbre di alfonsini.
Dopo la stesura dell’inventario il tutto fu locato
al catalano Guglielmo Jover per l’annuo canone di 80 fiorini d’oro.
Va sottolineato che la prima località nominata
nell’inventario è indicata come villa Finassuso e poiché tra i nomi delle ville
medievali sarde tale nome non appare e poiché, nei documenti ricorrono talvolta
errori di scritturazioni dovuti a fattori molteplici – basta ricordare, ad
esempio, il Fanari Gosso dell’inventario del 1320 – si può ipotizzare che
Finassuso sia una trasformazione della voce Fanari Suso dovuta alla cattiva
dizione di chi dettava o alla fretta da parte di chi scriveva.
Che si tratti di Fanari è confermato dalla presenza
nel testo di alcuni nomi di luogo e di persona coincidenti con altri che sono
stati riscontrati in precedenti testi riguardanti questa villa sebbene
l’estensore dell’inventario ignori la distinzione tra le due Fanari, i dati
presentati fanno però presumere che sotto un unico nome – Finassuso – si siano
indicati i beni dell’Opera situati nelle due frazioni in cui si articolava la
villa. Concorrono a fare identificare Finassuso con Fanari alcuni nomi di luogo
attribuiti alle terre della villa nei documenti finora esaminati e riferiti a
tempi precedenti, basti pensare a Piscina di Galbussanea – diventata nel testo,
forse per errore dello scriba o del trascrittore, Pischina Pisana – che può
essere identificata con la vigna di Piscina di Kalbusa del documento del 1108;
il toponimo Ficupelao che ricorda il Fico di Pelaio citato nel 1310 e nel 1320
e il Ficusdebelu ricordato nel 1272 e la domestia di Pelai citata nella
donazione del 1108; la località Li Narboni ricordata nell’inventario del 1310 e
del 1320. Il nome della terra della chiesa di Santa Maria nel 1339 è diventata,
a miglior chiarimento, Santa Maria dolias da interpretare come d’olias o di
olias cioè degli olivi o delle olive, poiché nel dialetto campidanese la parola
olia, plurale olias, indica la pianta e anche il suo frutto, dunque Santa Maria
degli ulivi o anche, ma sembra poco probabile, delle olive.
Va ancora tenuto presente che la località Li
Narboni è situata presso la via de cresia – via che conduce alla chiesa – che
potrebbe essere riferita ad una distrutta chiesa di San Pietro che la
tradizione locale ricorda. Comunque nella villa esisteva almeno una chiesa ed era
nel 1342 governata da un rettore, infatti il 21 luglio di quell’anno Giovanni
Amalrici, collettore delle decime triennali imposte al tempo del pontefice
Giovanni XXI per i regni di Sardegna e Corsica, riceveva da Bernardo Pererii,
arciprete doliense, incaricato dall’arcivescovo di Cagliari, 4 libbre e 10
soldi di alfonsini che costui versava per conto del rettore della chiesa di
Fanari; il 22 aprile 1356 il prete di Fanari Berengario Talavera versava a
Raimondo de Gosenchis, nominato dal pontefice Clemente VI collettore per il
regno di Sardegna delle decime triennali imposte per la guerra contro i Turchi,
15 soldi.
Tornando all’inventario si nota che nella villa
esisteva una curtis con sei case terrestri presso la quale era situata una
vigna ed un pezzo di terra, posto a livello più basso rispetto alla vigna, nel
quale venivano coltivati alberi di fico e altri alberi da frutta; il complesso
costituito da vigna e frutteto risultava circondato da altro terreno
appartenente all’Opera. Esisteva un altro pezzo di terra vignato affidato a Giovanni
Manco, servo dell’Opera, perché lo lavorasse, la metà risulta affittato per tre
parti all’ancella Factibuona. Anche questi erano contigui ad altri terreni
appartenenti all’Opera. Dietro la curtis si estendeva un pezzo di terra
piuttosto vasto che poteva ricevere 100 starelli di grano ed era indicato come
la domestica dell’Opera, interessante notare che esso confinava con la via che
conduceva a Palma, era attraversato da un corso d’acqua che nella sua parte
alta arrivava alla terra ricordata di santa Maria dolias e toccava la Piscina
di Galbussanea fino alla vigna di un donno Arsocco, e si estendeva per la via
che univa Fanari alla vigna sopra ricordata. Apparteneva all’Opera un pezzo di
terra detto della Miça, compreso tra un territorio appartenente alla donna Vera
Mereu, la via pubblica e altre terre appartenenti all’Opera, il terreno poteva
ricevere la semina di 5 starelli di grano. Essa era proprietaria di un pezzo di
terra indicato come Lischa della Nuça, dove lischa è da intendersi l’isca nome
che indica un terreno umido e fertile, confinante con le terre di un Maccarello
Capra, nel quale potevano essere seminati sei starelli di grano. All’Opera apparteneva
un terreno detto Saltus della Nuça, appartenente un tempo a Giovanni Soro,
servo dell’Opera, che riceveva la seminatura di 4 starelli di grano. Il pezzo
di terra nominato Ficupelao, confinante per i capita nei fondi di Vera Mereu e
con quelli appartenenti al fu donno Gaddo e per i latera con le terre di
Sossoni de Thunali e con quelle di donno Gadduccio, poteva ricevere la semina
di 20 starelli di grano. L’Opera disponeva ancora di un pezzo di terra sito in
Serra de Pela, confinante col Montorgio del Pisano del lisca de Pulliena e presso
il Pussargio de Argiola sito presso la curtis, che poteva essere seminato con
20 starelli d’orzo. La terra di Ganero confinante alli Narboni vie de Cresia
che giaceva sopra e sotto detta via che poteva essere seminato con 10 starelli
di orzo. L’Opera disponeva di altro pezzo di terra chiamato Corria di Sepollo
che poteva essere seminato con due starelli di grano. Un ultimo pezzo di terra
detto Girbagreu, confinante con la via pubblica e con i terreni dei sardi
Arsocco Dazzeni e Pietro de Sori Corria poteva ricevere 20 starelli di grano
come semente. Presso la curtis di Fanari dimoravano i seguenti servi e ancelle:
Margiano Porcis, al quale nel 1320 erano stati affidati alcuni beni dell’Opera
e che attualmente – 1339 – è privo di tale incarico, suo figlio Giovanni, sua
figlia Maria, Agnese ancella laterata questi costituivano la metà dei figli di
lui rimasti all’Opera perché la moglie era franca e libera ed ebbe certamente
parte della prole. Obbligati a dare tre parti del loro lavoro all’Opera sono
Factibuona Marcari, figlia del fu Giovanni Marche, Domenico Marca figlio di
lei; mentre Rosa Marca era ancella laterata ed aveva tre figli che non erano
ancora in grado di prestare servizio. Nella curtis si trovavano bestie plures plurium
manierum che dovevano essersi ridotte di molto pochi anni dopo. Si trattava di
40 vacche che avevano già figliato, 10 vacche di tre anni, 11 vitelli di due
anni, 16 vitelle di sei mesi circa, 10 buoi di circa 18 mesi, 10 vitelli di un
anno, 19 vitelli di circa sei mesi che nel 1345 si trovavano nel territorio
della villa. In quell’anno, quando ormai i contatti con la Sardegna si dovevano
essere allentati e all’Opera pareva mancare una visione precisa della
consistenza del suo patrimonio, il pisano ser Ghiandone, mercante in Cagliari,
procuratore dell’Operaio Giovanni Cocchi – che resse l’Operariato dal 1341 al
1346 – locava per cinque anni, a nome dell’Operaio, a Novello Fagiano abitante in
Villa di Chiesa, che agiva anche a nome della moglie Peruccia, figlia di
Cionellino di Uliveto, tutte le possessioni terriere con servi e ancelle site
nel giudicato di Cagliari. Le terre e le possessioni non sono indicate né tanto
meno descritte, ciò testimonia la disorganizzazione e l’incertezza
dell’amministrazione, ma vengono solo enunciati i capi di bestiame, ben poca
cosa rispetto ai ricchi patrimoni ricordati, radunati presso Fanari. Nell’atto
di locazione steso in Cagliari vengono stabilite le modalità di pagamento del
canone in ragione di complessive 120 libbre di denari alfonsini da effettuarsi
in rate di 15 libbre annuali per il primo biennio e 30 annuali per il triennio successivo.
Il contratto contiene una serie di clausole riguardanti il comportamento delle
parti nel caso di nascita o morte degli animali, ma ciò che interessa rilevare
è che in caso di contrasto le parti si sarebbero dovute adeguare all’arbitrato
espresso dal maiore di Fanari coadiuvato da quattro uomini della villa degni di
fede.
Nel luglio del 1359 gli Anziani del Comune di Pisa
disponevano che si procedesse alla ricognizione e alla stima degli introiti,
redditi, proventi in denaro e granaglie derivanti dai beni mobili e immobili che
il Comune possedeva nelle curatorie di Gippi e Trexenta. Gli incaricati dovevano
anche procedere a fornire gli elenchi dei soggetti abitanti nelle ville delle
due curatorie tenuti al pagamento delle contribuzioni.
Fu designato all’operazione ser Costantino Sardo,
cittadino pisano, al quale fu assegnato come collaboratore il notaio Pietro, del
fu Marco, da Calci. Frutto del loro lavoro è quella che il testo indica come
sesta Composizione relativa alle due curatorie. Essa è probabilmente l’ultima e
doveva avere vigore dal primo giorno di settembre del 1362. La lettura della
Composizione è interessante perché offre molti dettagli sulla situazione degli
abitatati e delle terre situati nelle ville delle due curatorie. Intanto si può
osservare un generale alleggerimento della pressione fiscale usata nei loro
confronti ed una sorta di ritorno a usanze e istituti del periodo giudicale. Si
può verificare una maggiore comprensione per le situazioni in cui versavano gli
abitanti che si risolveva in temporanei esoneri da alcuni pagamenti in precedenza
dovuti da determinate categorie di persone ora decadute dal primitivo stato. Il
nuovo atteggiamento della fiscalità può trovare spiegazione nella condizione di
isolamento e di insicurezza nella quale si trovava il Comune, o meglio, i
territori rimastigli in Sardegna, timoroso anche di possibili rivolte e della
minaccia derivante dalla presenza dei conquistatori che tendevano ad assorbire
le due curatorie. Il Comune possedeva in Gippi e Trexenta molti appezzamenti di
terreno, coltivati e no, case, vigne, alberi da frutta lasciati allo
sfruttamento dei singoli o delle comunità dai quali ritraeva introiti che la
Composizione annota minuziosamente. Il Compositore, seguendo certamente una
prassi consolidata, distingue, per quanto riguarda il censo e la conseguente
capacità contributiva, gli abitanti del luogo nel seguente modo: primi vengono
i liberi et terrales ab equo, obbligati al servizio a cavallo quando il Comune
lo richiedesse, esentati dal datium dovuto dagli altri contribuenti e tenuti a
un annuale donamentum, seguono i maiores, i mediocres, i minores, distinti sulla
base di una maggiore o minore capacità contributiva determinata dalla
rispettiva condizione economica, e i palatores che si possono definire come
braccianti o lavoratori a giornata, che si spostano in cerca di lavoro e che
paiono non sempre avere dimora stabile perché di alcuni è detto che sono
pauperes et andausani. Di Fanari, che viene distinta in Fanari Suso e Fanari
Josso, è detto che gli abitanti dovevano versare collettivamente ogni anno al
primo di settembre 15 libbre di moneta alfonsina pro eorum datio. Alla stessa
data dovevano consegnare al Comune 60 starelli di grano e 60 starelli di orzo –
allo starello di Cagliari raso alla sommità con un ferro. Nella quantità dei cereali
dovuti doveva essere compreso anche il contributo dei palatori tenuti a versare
ciascuno uno starello di grano e uno di orzo. Alla stessa data gli abitanti
dovevano della villa erano tenuti a corrispondere 5 libbre di alfonsini per il
diritto delle taverne. Da questo preambolo di carattere generale riguardante i
versamenti che la collettività di Fanari doveva corrispondere in solido, il
Compositore passa ad elencare coloro che vengono classificati maiores,
mediocres, minores e annota accanto al nome di ciascuno la stima dei beni
posseduti, in modo che il contributo dovuto risulti adeguato alla stima
suddetta. I maiores risultano essere Giovanni Arigi i cui beni sono stimati 38
libbre, Molentinu Casu possiede beni per 39 libbre, Guantino Masala per 25
libbre, Cristofano Tuliu per 42 libbre, Arestotino de Asseni per 23 libbre,
Benedetto di Vaglia, i cui beni vengono stimati 19 libbre, ciascuno di loro
risulta proprietario di terra che arava con un suo giogo di buoi. Altri
abitanti di Fanari classificati tra i maiores aravano la propria terra con un
giogo di buoi di cui erano proprietari, si tratta di Salvatore Casu che
possedeva beni per 50 libbre, Jevanargio de Serra per 34 libbre, Arsocco Casu
per 32 libbre, Salvatore de Ecchas per 85 libbre, Migliore de Eccha per 24
libbre, Berlingherio de Eccha per 25 libbre, Nicola Dessori per 90 libbre,
Alibrando de Unale per 20 libbre, Giovanni Porcella per libbre 38, Pietro Polla
per libbre 40, Pietro Amorosus per libbre 10. Vengono considerati come appartenenti
al ceto dei minores: Murzo Mancha che possiede beni valutati 7 libbre, Gonnare
Mancha ne possiede per libbre 20, Giovani Falla per libbre 6, ciascuno di loro
possiede la terra, un giogo di buoi ma semina con semente altrui.
L’ultimo gruppo elencato è rappresentato da
appartenenti al ceto dei minores e dei palatores che però sono stabili.
Costoro, anche se qualcuno disponeva di beni di una certa consistenza, non
possedevano terra né giogo di buoi e sono: Nicola Cerronis che possiede beni per
12 libbre, Antioco Dessori per 1/2 libbra, Neruccio Dessori per 13 libbre,
Giorgio de Hunale per 6 libbre, Giovani Porcella piccino per libbre 27, Lorenzo
Destuturus per libbre 27, Guantino Dorru per ½ libbra, Gomita Bonu per libbre
11, Francesco Marras per 1/2 libbra, Barsuolo Lampis per 1/2 libbra. Da quanto
rilevato dal Compositore si può concludere che il Comune pisano non possedeva a
Fanari alcun bene immobile, né servi né ancelle, né bestiame. Una spiegazione di
ciò può essere data dalla presenza dell’Opera che, come abbiamo visto, era
dotata di molti di questi beni. Dalla Composizione risulta inoltre che nella
villa non erano presenti liberi ab equo né gli appartenenti al ceto dei
mediocres. Con la Composizione del 1359 le notizie sulla villa di Fanari e
sulle curatorie di Gippi e Trexenta si diradano fin quasi a scomparire. Negli
anni seguenti al 1326 si erano verificati molti contrasti tra l’amministrazione
regia e gli ufficiali pisani che, in qualità di vicari o rettori, governavano
le due curatorie.
Perdenti furono i Pisani che dovettero sottostare
ad una serie di soprusi e vessazioni che condussero allo svuotamento del loro
potere a vantaggio dei catalano-aragonesi. Ci fu anche una spedizione punitiva guidata
da Artal de Pallars che nel 1355 guidava un piccolo esercito verso la Trexenta
allo scopo di punire i Pisani accusati di essersi alleati con Matteo Doria,
ribelle alla Corona. Non si conosce l’andamento delle vicende ma pare che siano
stati presi ostaggi e che siano state sottratte alle curatorie alcune ville,
date in feudo ai sudditi del re. È probabile che in seguito si sia addivenuti a
un accordo con restituzione delle terre confiscate se nel 1362 il re Pietro IV
scriveva al protonotario Matteo Adrià chiedendo copia di un precedente accordo raggiunto
con Pisa. Nel 1361 era camerario di Gippi e Trexenta Gabriello di ser Coscio
Compagni che il 23 settembre si adoperò perché pervenisse a Pisa la somma di
2477 fiorini d’oro, 21 soldi e 3 denari pisani raccolti e accantonati in virtù
del suo ufficio. Non è stato possibile trovare, dopo quella data, cenni ad
invio di denaro dalle due curatorie. Certo è che la pressione esercitata dagli
iberici si fece sempre più insistente e verso la fine del secolo molte ville
furono infeudate e molte altre, particolarmente nella curatoria di Gippi,
finirono abbandonate per cause non sempre individuabili. Alla fine del sec. XIV
Fanari esisteva ancora, nell’ottobre del 1414 il re d’Aragona infeudava il
territorio di Gippi al catalano Giovanni Siviller; dall’atto di infeudazione
pare che Fanari fosse popolata.
Dopo quell’anno però non si rintraccia alcuna
documentazione che ne attesti la vitalità. Il Fara nella sua opera geografica,
scritta circa un secolo dopo, indica Fanaris Suso e Fanaris Giosso tra gli
excisa … oppida della curatoria di Gippi.
Elisabetta ARTIZZU, Fanari donnicalia e villa, in
Archivio Storico Sardo, vol. XLV - anno 2008 - 2009, Cagliari 2008 – 2009.
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