Processi di formazione delle
città sarde nel XIII secolo: il caso di Santa Igia.
di Alessandro Soddu
Il centro di Santa Igia o
Gilia/Gilla (= Cecilia) era ubicato presso l’omonimo stagno, nell’odierna
periferia di Cagliari, in corrispondenza delle chiese di S. Cecilia, S. Pietro
e S. Maria di Cluso. Quest’ultima, con le annesse pertinenze, dipendeva dagli
anni ’80 dell’XI secolo dai Vittorini di Marsiglia, stanziatisi a S. Saturno di
Cagliari. La stessa chiesa di S. Maria di Cluso è considerata da alcuni studiosi
la cattedrale duecentesca dell’archidiocesi cagliaritana, avendone rilevato la
funzione da quella di S. Cecilia.
Nel corso del XII secolo S. Igia
arrivò ad assumere il ruolo di capitale del giudicato di Cagliari. La sua
ascesa è legata da un lato all’eredità raccolta dal contiguo centro bizantino
di Karales/Kalares, il cui rango di civitas aveva lasciato ricordo di sé nella
toponomastica ed in particolare nel nome della curatorìa, dall’altro dalla
trasformazione dell’azienda signorile monastica (donnicàlia) di Cluso in una
più articolata comunità di villaggio.
Il processo di affermazione di S.
Igia, ricostruibile in realtà solo a grandi linee, fu certamente favorito dalla
penetrazione via via sempre più capillare di Pisani e Genovesi, soprattutto nell’area
portuale e delle saline. Le strategie espansionistiche degli Obertenghi di
Massa prima e dei Visconti poi impressero un’accelerazione al controllo
politico ed economico da parte di Pisa, anche se non mancò la reazione dei
Genovesi, i quali nel 1196 misero in fuga il giudice Guglielmo di Massa,
causando anche la distruzione dalle fondamenta del palazzo dello stesso
Guglielmo e di «palatia quoque et domos de Sancta Ygia». È questa notizia a
rivelare l’indubbia centralità politica assunta da S. Igia in quanto residenza
della massima autorità politica del giudicato. Il riferimento a un’edilizia
nobile sembra suggerire una fisionomia quasi urbana, come conferma
indirettamente l’eterogeneità della sua popolazione tra XII e XIII secolo.
Dopo la morte di Guglielmo di
Massa (1214), approfittando della debolezza dell’erede sul trono di Cagliari, Benedetta,
i Visconti imposero la propria leadership compiendo una precisa scelta
strategica, quella di privilegiare il sito più elevato di Cagliari per il
controllo delle attività economiche. La fondazione nel 1216 del Castel di
Castro determinò la formazione di un’autentica enclave pisana nel giudicato,
che tuttavia sopravvisse e continuò ad avere in S. Igia la propria capitale,
dotata di un palatium regni. Diverse sono le testimonianze in tal senso: nel
1224 il documento di sottomissione alla Sede apostolica della giudicessa
Benedetta venne stilato «in inferiori camera palatii venerabilis patris …
archiepiscopi calaritani, apud villam Sanctae Caeciliae»; nel 1231 il testamento
di Ubaldo I Visconti fu redatto a S. Igia «in palatio regni Kallari»; nel 1233
un atto del giudice di Gallura Ubaldo II Visconti venne rogato «in palatio
regni kallaretani in villa dicta Santa Gilia»; del 1235, infine, sono due
donazioni di Agnese di Massa insieme al marito Ranieri di Bolgheri ai
Cistercensi di S. Pantaleone di Lucca, i cui rispettivi atti furono stilati a
S. Gilla. Da queste stesse fonti si evince peraltro la presenza, diretta o indiretta,
a S. Igia di alcuni influenti personaggi pisani legati ai Visconti.
Successivamente alla morte di
Ubaldo I (1231), il ritorno sul trono di Cagliari della dinastia erede del casato
obertengo di Massa, coincise con la presenza dei giudici anche nella sede di
Castel di Castro, anche se S. Igia mantenne il proprio rango istituzionale di
capitale e diventò il centro delle strategie che, poco oltre la metà del secolo,
avrebbero dovuto condurre il giudicato sotto la protezione di Genova.
È proprio la documentazione
relativa agli accordi stipulati con il Comune ligure da Guglielmo III Cepolla (1256-1258)
a permettere di fare luce sulla fisionomia amministrativa di S. Igia, dove si
trovava la casa dello stesso giudice e anche quella di Agnese, figlia del fu
Guglielmo di Massa. Definita prevalentemente villa, ma talvolta anche civitas,
S. Igia era retta da uno o più curatores, istituzione di tradizione giudicale
deputata al governo dei distretti amministrativi rurali, ma documentata anche
in ambito urbano (Cagliari-Civita, Oristano, Sassari, Bosa).
Il 15 ottobre 1256 l’universitas
della villa espresse attraverso venticinque capitanei la propria fedeltà al giudice
Guglielmo, «cum honore Comunis Ianue et salvo mandato Comunis Ianue». Nello
stesso giorno è «apud Sanctam Igiam in ecclesia Sancte Marie de Cluso» che Simone
Guercio, ammiraglio della flotta genovese, infeudò, in nome del Comune di
Genova, tutti i beni del giudicato di Cagliari a Guglielmo Cepolla, ad
eccezione del Castrum Callari e di «civitatem sive villam et locum Sancte
Igie», che doveva essere «ad proprium Comunis Ianue sicut est castrum et
redditus Bonifacii, ita quod homines ipsius civitatis Sancte Igie gaudeant illa
immunitione et libertate a Comuni Ianue qua gaudent homines Bonifacii».
Dunque, in virtù dell’accordo
suddetto, S. Igia avrebbe separato il proprio destino da quello del giudicato, ponendosi
sotto il governo di un podestà genovese per assumere chiaramente lo status di
Comune, godendo degli stessi privilegi della colonia corsa di Bonifacio. Nel novembre
del 1256 quattro nunzi (tra cui l’arciprete di S. Maria di Cluso) parteciparono
a Genova alla ratifica dei patti e nel 1257 Iachino Calderario venne nominato podestà
«in Sancte Gilie».
Tanta specialità doveva
riflettere le istanze e la mentalità urbana della società locale; una realtà complessa,
in cui l’onomastica ibrida della popolazione denuncia l’integrazione e il
radicamento delle prime generazioni di terramagnesi. Non mancavano peraltro fazioni
interne contrarie alla politica filogenovese, se è vero che nel 1257 vennero
brutalmente perseguiti alcuni cives che avrebbero voluto consegnare S. Igia ai
Pisani.
Le vicende legate all’altrettanto
violenta rappresaglia compiuta da Pisa e dai suoi alleati, che causò la fine
del giudicato di Cagliari, consentono di acquisire ulteriori preziose
informazioni sull’articolazione interna della civitas. Alla sottoscrizione
degli atti della resa nel 1258 parteciparono infatti i vertici dell’apparato
amministrativo cittadino: il podestà del popolo, il capitano dei milites e il
maresciallo, tutti e tre di origine genovese; dodici sardos, tra cui il
curatore, che componevano probabilmente il ristretto consiglio del podestà.
La stessa documentazione
disegnava il destino previsto per la villa e per i suoi abitanti: i Pisani
consentirono alle loro controparti, compresi «omnibusque aliis tam lombardis
quam ianuensibus, et omnibus terramagnensibus », di portare fuori da S. Igia e
dal giudicato di Cagliari persone e cose, animali e cavalli in particolare, fino
a Sassari (considerata evidentemente come area filogenovese), mentre il podestà
sarebbe stato imbarcato e trasportato fino a Genova o Portovenere. S. Igia
sarebbe stata posta sotto la diretta amministrazione del Comune di Pisa, così
come Castel di Castro, e non assegnata a uno dei domini Sardinee che avevano
concorso allo smantellamento del giudicato. Venne inoltre sancita la
restituzione di beni da parte di alcuni abitanti, che se ne erano evidentemente
impossessati illecitamente. I Pisani promisero, infine, di ampliare la villa
senza tuttavia «removere ipsam de suo solo nec destruere», salva la demolizione
«muri et fossi et porte». S. Igia era, dunque, dotata di mura, di un fossato e
della porta, tutti elementi che ne confermano inequivocabilmente la fisionomia
urbana.
Contrariamente a quanto
concordato, i Pisani rasero al suolo la città, espellendo gli abitanti,
vendendone e riducendone in servitù alcuni di loro. Fu probabilmente l’intraprendenza
dimostrata in più frangenti dai ceti dirigenti locali a indurre Pisa a dare una
lezione esemplare che dissuadesse da ogni futuro moto di rivolta. Non
altrimenti si spiega la radicale damnatio che ebbe l’effetto di cancellare ogni
traccia monumentale, compresi quasi tutti gli edifici ecclesiastici.
La fine di S. Igia è ricordata in
fonti pisane e catalanoaragonesi del XIV secolo: nella cosiddetta Cronica Roncioniana
si ricorda il fatto che nel 1258 i Pisani «puoseno asedio in Santa Gilia et
Castello di Castro, li quali tenevano li genovesi» e come «poi li pisani
preseno Santa Gilia, fernola disfare. Li pisani disfeceno una villa alli Sardi
di S. Gilia le quale si chiamava la Stampace che è a pie di Castello di
Castro».
Un documento aragonese della metà
circa del XIV secolo recita invece:
Nam in principio inde Pisani
iudicatum de Callari acquisierunt, marchionem Chianni, qui dictum iudicatum
debite possidebat, subito et proditorie, in civitate Sancte Gilie invaserunt,
qui exiens ad preliandum cum eis debellatus fuit in campo et personaliter
captus.
Et postquam eidem Pisani, ex
apposito dicte civitatis, caput amputari fecerunt indebite, de dicto iudicatu,
meliorem partem pro se retinentes, aliquam partem, comiti Gerardo de Donoratico
et comiti Vegolino, qui in prefata acquisitione cum posse eorum erant, dederunt.
A distanza di trenta anni dalla
distruzione della città, negli atti della pace tra Pisa e Genova del 1288 si
sanciva, tra le altre cose, che la prima consegnasse alla seconda «locum ubi
fuit vel esse consuevit villa Sancte Zilie sive Sancte Ilie, cum toto
territorio ipsius ville et stagnum seu stagnonum totum cum ripis, quod ad ipsum
locum sive villam Sancte Zilie sive Sancte Ilie pertinet seu pertinuit vel
pertinere consuevit et piscationibus et omnibus pertinentibus». La damnatio non
poteva dirsi più completa, anche se nel primo quarto del Trecento doveva essere
ancora in piedi l’antica cattedrale, visto che la definitiva traslazione nella
nuova sede di S. Maria di Castel di Castro avvenne intorno al 1311.
In conclusione, l’esperienza di
S. Igia rappresenta efficacemente le trasformazioni sociali e istituzionali che
investirono durante il XIII secolo alcune realtà della Sardegna giudicale. La
promozione delle attività economiche da parte di monaci (in questo caso i
Vittorini di Marsiglia) e soprattutto del ceto mercantile pisano e genovese
determinò il successo di un insediamento per il quale sembra funzionare in modo
ottimale la sequenza evolutiva donnicàlia-villa-civitas, altrove nell’isola
tutt’altro che scontata. Gli eventi traumatici del 1258 permettono poi di
circoscrivere in modo altrettanto puntuale «vita e morte» dello stesso centro
abitato, rivelandone il processo di destrutturazione sul piano istituzionale e
materiale. Per questo motivo il caso di S. Igia costituisce un interessante
“fossile” delle sperimentazioni politiche del Duecento sardo, troppo spesso
letto in passato nella sola chiave colonialistica dell’espansione pisana e
genovese, in antitesi con il modello indigeno giudicale. Proprio dal giudicato
di Cagliari e dalla sua capitale S. Igia viene, invece, l’esempio di una
profonda compenetrazione tra l’elemento locale e l’apporto esterno. Il
radicamento e l’integrazione nel sud dell’isola di consistenti nuclei di
famiglie toscane e liguri di varia estrazione ebbe certamente l’effetto di
rinnovarne il tessuto sociale ed economico, favorendo la maturazione di quelle
istanze di autonomia che sono alla base del tentativo, precocemente fallito, di
dare vita a S. Igia a un’organizzazione civica di impronta comunale.
Alessandro SODDU, Processi di
formazione delle città sarde nel XIII secolo: il caso di Santa Igia, in
"Identità cittadine ed élites politiche e economiche in Sardegna tra XIII
e XV secolo" (a cura di G. Meloni, P.F. Simbula, A. Soddu), Sassari 2010,
pagg. 63-79
Nessun commento:
Posta un commento