giovedì 3 dicembre 2015

Processi di formazione delle città sarde nel XIII secolo: il caso di Santa Igia.

Processi di formazione delle città sarde nel XIII secolo: il caso di Santa Igia.

di Alessandro Soddu

Il centro di Santa Igia o Gilia/Gilla (= Cecilia) era ubicato presso l’omonimo stagno, nell’odierna periferia di Cagliari, in corrispondenza delle chiese di S. Cecilia, S. Pietro e S. Maria di Cluso. Quest’ultima, con le annesse pertinenze, dipendeva dagli anni ’80 dell’XI secolo dai Vittorini di Marsiglia, stanziatisi a S. Saturno di Cagliari. La stessa chiesa di S. Maria di Cluso è considerata da alcuni studiosi la cattedrale duecentesca dell’archidiocesi cagliaritana, avendone rilevato la funzione da quella di S. Cecilia.

Nel corso del XII secolo S. Igia arrivò ad assumere il ruolo di capitale del giudicato di Cagliari. La sua ascesa è legata da un lato all’eredità raccolta dal contiguo centro bizantino di Karales/Kalares, il cui rango di civitas aveva lasciato ricordo di sé nella toponomastica ed in particolare nel nome della curatorìa, dall’altro dalla trasformazione dell’azienda signorile monastica (donnicàlia) di Cluso in una più articolata comunità di villaggio.

Il processo di affermazione di S. Igia, ricostruibile in realtà solo a grandi linee, fu certamente favorito dalla penetrazione via via sempre più capillare di Pisani e Genovesi, soprattutto nell’area portuale e delle saline. Le strategie espansionistiche degli Obertenghi di Massa prima e dei Visconti poi impressero un’accelerazione al controllo politico ed economico da parte di Pisa, anche se non mancò la reazione dei Genovesi, i quali nel 1196 misero in fuga il giudice Guglielmo di Massa, causando anche la distruzione dalle fondamenta del palazzo dello stesso Guglielmo e di «palatia quoque et domos de Sancta Ygia». È questa notizia a rivelare l’indubbia centralità politica assunta da S. Igia in quanto residenza della massima autorità politica del giudicato. Il riferimento a un’edilizia nobile sembra suggerire una fisionomia quasi urbana, come conferma indirettamente l’eterogeneità della sua popolazione tra XII e XIII secolo.

Dopo la morte di Guglielmo di Massa (1214), approfittando della debolezza dell’erede sul trono di Cagliari, Benedetta, i Visconti imposero la propria leadership compiendo una precisa scelta strategica, quella di privilegiare il sito più elevato di Cagliari per il controllo delle attività economiche. La fondazione nel 1216 del Castel di Castro determinò la formazione di un’autentica enclave pisana nel giudicato, che tuttavia sopravvisse e continuò ad avere in S. Igia la propria capitale, dotata di un palatium regni. Diverse sono le testimonianze in tal senso: nel 1224 il documento di sottomissione alla Sede apostolica della giudicessa Benedetta venne stilato «in inferiori camera palatii venerabilis patris … archiepiscopi calaritani, apud villam Sanctae Caeciliae»; nel 1231 il testamento di Ubaldo I Visconti fu redatto a S. Igia «in palatio regni Kallari»; nel 1233 un atto del giudice di Gallura Ubaldo II Visconti venne rogato «in palatio regni kallaretani in villa dicta Santa Gilia»; del 1235, infine, sono due donazioni di Agnese di Massa insieme al marito Ranieri di Bolgheri ai Cistercensi di S. Pantaleone di Lucca, i cui rispettivi atti furono stilati a S. Gilla. Da queste stesse fonti si evince peraltro la presenza, diretta o indiretta, a S. Igia di alcuni influenti personaggi pisani legati ai Visconti.

Successivamente alla morte di Ubaldo I (1231), il ritorno sul trono di Cagliari della dinastia erede del casato obertengo di Massa, coincise con la presenza dei giudici anche nella sede di Castel di Castro, anche se S. Igia mantenne il proprio rango istituzionale di capitale e diventò il centro delle strategie che, poco oltre la metà del secolo, avrebbero dovuto condurre il giudicato sotto la protezione di Genova.

È proprio la documentazione relativa agli accordi stipulati con il Comune ligure da Guglielmo III Cepolla (1256-1258) a permettere di fare luce sulla fisionomia amministrativa di S. Igia, dove si trovava la casa dello stesso giudice e anche quella di Agnese, figlia del fu Guglielmo di Massa. Definita prevalentemente villa, ma talvolta anche civitas, S. Igia era retta da uno o più curatores, istituzione di tradizione giudicale deputata al governo dei distretti amministrativi rurali, ma documentata anche in ambito urbano (Cagliari-Civita, Oristano, Sassari, Bosa).

Il 15 ottobre 1256 l’universitas della villa espresse attraverso venticinque capitanei la propria fedeltà al giudice Guglielmo, «cum honore Comunis Ianue et salvo mandato Comunis Ianue». Nello stesso giorno è «apud Sanctam Igiam in ecclesia Sancte Marie de Cluso» che Simone Guercio, ammiraglio della flotta genovese, infeudò, in nome del Comune di Genova, tutti i beni del giudicato di Cagliari a Guglielmo Cepolla, ad eccezione del Castrum Callari e di «civitatem sive villam et locum Sancte Igie», che doveva essere «ad proprium Comunis Ianue sicut est castrum et redditus Bonifacii, ita quod homines ipsius civitatis Sancte Igie gaudeant illa immunitione et libertate a Comuni Ianue qua gaudent homines Bonifacii».

Dunque, in virtù dell’accordo suddetto, S. Igia avrebbe separato il proprio destino da quello del giudicato, ponendosi sotto il governo di un podestà genovese per assumere chiaramente lo status di Comune, godendo degli stessi privilegi della colonia corsa di Bonifacio. Nel novembre del 1256 quattro nunzi (tra cui l’arciprete di S. Maria di Cluso) parteciparono a Genova alla ratifica dei patti e nel 1257 Iachino Calderario venne nominato podestà «in Sancte Gilie».

Tanta specialità doveva riflettere le istanze e la mentalità urbana della società locale; una realtà complessa, in cui l’onomastica ibrida della popolazione denuncia l’integrazione e il radicamento delle prime generazioni di terramagnesi. Non mancavano peraltro fazioni interne contrarie alla politica filogenovese, se è vero che nel 1257 vennero brutalmente perseguiti alcuni cives che avrebbero voluto consegnare S. Igia ai Pisani.

Le vicende legate all’altrettanto violenta rappresaglia compiuta da Pisa e dai suoi alleati, che causò la fine del giudicato di Cagliari, consentono di acquisire ulteriori preziose informazioni sull’articolazione interna della civitas. Alla sottoscrizione degli atti della resa nel 1258 parteciparono infatti i vertici dell’apparato amministrativo cittadino: il podestà del popolo, il capitano dei milites e il maresciallo, tutti e tre di origine genovese; dodici sardos, tra cui il curatore, che componevano probabilmente il ristretto consiglio del podestà.

La stessa documentazione disegnava il destino previsto per la villa e per i suoi abitanti: i Pisani consentirono alle loro controparti, compresi «omnibusque aliis tam lombardis quam ianuensibus, et omnibus terramagnensibus », di portare fuori da S. Igia e dal giudicato di Cagliari persone e cose, animali e cavalli in particolare, fino a Sassari (considerata evidentemente come area filogenovese), mentre il podestà sarebbe stato imbarcato e trasportato fino a Genova o Portovenere. S. Igia sarebbe stata posta sotto la diretta amministrazione del Comune di Pisa, così come Castel di Castro, e non assegnata a uno dei domini Sardinee che avevano concorso allo smantellamento del giudicato. Venne inoltre sancita la restituzione di beni da parte di alcuni abitanti, che se ne erano evidentemente impossessati illecitamente. I Pisani promisero, infine, di ampliare la villa senza tuttavia «removere ipsam de suo solo nec destruere», salva la demolizione «muri et fossi et porte». S. Igia era, dunque, dotata di mura, di un fossato e della porta, tutti elementi che ne confermano inequivocabilmente la fisionomia urbana.

Contrariamente a quanto concordato, i Pisani rasero al suolo la città, espellendo gli abitanti, vendendone e riducendone in servitù alcuni di loro. Fu probabilmente l’intraprendenza dimostrata in più frangenti dai ceti dirigenti locali a indurre Pisa a dare una lezione esemplare che dissuadesse da ogni futuro moto di rivolta. Non altrimenti si spiega la radicale damnatio che ebbe l’effetto di cancellare ogni traccia monumentale, compresi quasi tutti gli edifici ecclesiastici.

La fine di S. Igia è ricordata in fonti pisane e catalanoaragonesi del XIV secolo: nella cosiddetta Cronica Roncioniana si ricorda il fatto che nel 1258 i Pisani «puoseno asedio in Santa Gilia et Castello di Castro, li quali tenevano li genovesi» e come «poi li pisani preseno Santa Gilia, fernola disfare. Li pisani disfeceno una villa alli Sardi di S. Gilia le quale si chiamava la Stampace che è a pie di Castello di Castro».

Un documento aragonese della metà circa del XIV secolo recita invece:

Nam in principio inde Pisani iudicatum de Callari acquisierunt, marchionem Chianni, qui dictum iudicatum debite possidebat, subito et proditorie, in civitate Sancte Gilie invaserunt, qui exiens ad preliandum cum eis debellatus fuit in campo et personaliter captus.
Et postquam eidem Pisani, ex apposito dicte civitatis, caput amputari fecerunt indebite, de dicto iudicatu, meliorem partem pro se retinentes, aliquam partem, comiti Gerardo de Donoratico et comiti Vegolino, qui in prefata acquisitione cum posse eorum erant, dederunt.

A distanza di trenta anni dalla distruzione della città, negli atti della pace tra Pisa e Genova del 1288 si sanciva, tra le altre cose, che la prima consegnasse alla seconda «locum ubi fuit vel esse consuevit villa Sancte Zilie sive Sancte Ilie, cum toto territorio ipsius ville et stagnum seu stagnonum totum cum ripis, quod ad ipsum locum sive villam Sancte Zilie sive Sancte Ilie pertinet seu pertinuit vel pertinere consuevit et piscationibus et omnibus pertinentibus». La damnatio non poteva dirsi più completa, anche se nel primo quarto del Trecento doveva essere ancora in piedi l’antica cattedrale, visto che la definitiva traslazione nella nuova sede di S. Maria di Castel di Castro avvenne intorno al 1311.

In conclusione, l’esperienza di S. Igia rappresenta efficacemente le trasformazioni sociali e istituzionali che investirono durante il XIII secolo alcune realtà della Sardegna giudicale. La promozione delle attività economiche da parte di monaci (in questo caso i Vittorini di Marsiglia) e soprattutto del ceto mercantile pisano e genovese determinò il successo di un insediamento per il quale sembra funzionare in modo ottimale la sequenza evolutiva donnicàlia-villa-civitas, altrove nell’isola tutt’altro che scontata. Gli eventi traumatici del 1258 permettono poi di circoscrivere in modo altrettanto puntuale «vita e morte» dello stesso centro abitato, rivelandone il processo di destrutturazione sul piano istituzionale e materiale. Per questo motivo il caso di S. Igia costituisce un interessante “fossile” delle sperimentazioni politiche del Duecento sardo, troppo spesso letto in passato nella sola chiave colonialistica dell’espansione pisana e genovese, in antitesi con il modello indigeno giudicale. Proprio dal giudicato di Cagliari e dalla sua capitale S. Igia viene, invece, l’esempio di una profonda compenetrazione tra l’elemento locale e l’apporto esterno. Il radicamento e l’integrazione nel sud dell’isola di consistenti nuclei di famiglie toscane e liguri di varia estrazione ebbe certamente l’effetto di rinnovarne il tessuto sociale ed economico, favorendo la maturazione di quelle istanze di autonomia che sono alla base del tentativo, precocemente fallito, di dare vita a S. Igia a un’organizzazione civica di impronta comunale.

 

 

Alessandro SODDU, Processi di formazione delle città sarde nel XIII secolo: il caso di Santa Igia, in "Identità cittadine ed élites politiche e economiche in Sardegna tra XIII e XV secolo" (a cura di G. Meloni, P.F. Simbula, A. Soddu), Sassari 2010, pagg. 63-79

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